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Fiat

Cara presidente Meloni, l’auto europea è morta, non servono sussidi. Parola di ex top manager Fiat

Riflessioni malinconiche sul settore auto nella lettera che l'ex top manager del gruppo Fiat, Riccardo Ruggeri, ha spedito a Giorgia Meloni

 

Cara Giorgia Meloni,

dall’alto dei miei novant’anni, spesi per settanta nel mondo del business delle “ruote” e per venti in quello dell’editoria, mi permetto un consiglio (non richiesto, visto che neppure ci conosciamo): stia lontana, e faccia star lontano i risparmi di noi cittadini dal mondo dell’auto. Oggi appare essere una trappola per topi.

L’industria dell’auto per cent’anni è stato un business di alto profilo e nobiltà, con mitici personaggi di vertice. Oggi, invece, al suo vertice, così come al vertice della politica occidentale, c’è un’alta concentrazione di inetti o di birbanti (le confesso che faccio fatica a distinguerli, sono tutti così eleganti, con un inglese così fluently!).

Costoro hanno permesso alla Cina di Xi Jinping di diventare, con poche mosse strategiche, padrona assoluta del gioco. Hanno trasformato le nostre istituzioni statali e private o in belle statuine (Ursula von der Leyen) o in marionette (Politici-Azionisti-CEO-Sindacati). Mi ricordano i ballerini della danza rituale Nuo, una ballata che i cinesi praticano per scacciare gli spiriti maligni, cioè tutti i non cinesi.

In questi ultimi vent’anni, ho scritto molto su FIAT: diversi libri, una cinquantina di articoli, svariate interviste. Raccontai nel 2009 come FIAT Auto fosse tecnicamente fallita, quando i suoi “corporate bond” furono certificati da Moody’s “spazzatura”. E pure come la Chrysler fosse fallita, certificata del mitico Chapter Eleven. Grazie a Barack Obama, e al suo mentore Sergio Marchionne, con i quattrini dei contribuenti americani (parte a fondo perduto, parte da restituire) i due falliti si fusero e nacque FCA, salvando i patrimoni di entrambi gli azionisti e il fondo pensione dei sindacati americani. Così è nata FCA, e almeno per me era già chiaro come sarebbe finita. E lo scrissi. Nulla da aggiungere.

Presidente, mi permetta una riflessione personale: il destino dell’industria dell’auto “europea” è segnato da tempo, inutile buttare quattrini per incentivi (un mio tweet in tempi non sospetti: “Sussidiare un mercato che non c’è è semplicemente una fesseria”). Men che meno entrare nel capitale di un business ove la  leadership globale è cinese.

In un quindicennio si sono impossessati dell’intera catena strategico-logistica, hanno il dominio assoluto sulle materie prime rare, sullo sviluppo prodotti, sull’innovazione prodotti-mercati, sulla componentistica, etc.. E al contempo investono pesantemente nel nucleare e nelle energie rinnovabili. Tutte mosse, impeccabili, da vero leader mondiale. E gli ex Big dell’auto? Via via saranno retrocessi a follower.

Non si capisce, anche da un punto di vista tecnico, come si possa fare concorrenza ai cinesi nel momento in cui gli abbiamo consegnato il nostro modello di business. Non essendoci più un’industria dell’auto italiana, capisco la sua preoccupazione di salvare quel certo numero di posti di lavoro italiani che ancora ci sono negli stabilimenti cacciavite sopravvissuti. Giusto! Ma si chieda: sono posti di lavoro strutturali o residuali, quindi dal destino segnato già al momento della nascita di Stellantis, tenuti un vita solo grazie a una CIG perenne?

Quando avvengono vendite di gruppi industriali di queste dimensioni, e con forti implicazioni sociali nel paese del venditore, è d’uso in sede di negoziazione per la definizione del prezzo e dei patti parasociali (riservati) tenerne ovviamente conto. Immagino che allora si sarà pure disegnata una strategia di transizione acconcia, opportunamente prezziata. Così i due azionisti di riferimento avranno dato al loro CEO Carlos Tavares le “regole di ingaggio” e i budget per condurre a termine, sia la ristrutturazione, sia il nuovo riposizionamento strategico. Ovvio che più si avvicina il momento della verità più i vertici siano pronti a tutto pur di difendere il valore di borsa, da cui derivano per gli uni i dividendi, per l’altro bonus e stock option.

È possibile che in futuro gli stessi francesi saranno costretti, sempre in nome delle economie di scala e dell’essere ormai follower della Cina, a ragionare in termini di nuovi scenari, di nuovi accorpamenti, ergo di nuove dolorose ristrutturazioni, quindi Stellantis con Renault e forse pure con Volkswagen? Com’è possibile pensare che uno Stato terzo investa in un business con tali prospettive e in continuo “sommovimento strategico” per sopravvivere? Vogliamo mica tornare alla celebre locuzione d’antan “privatizzare i profitti, socializzare le perdite”?

Cara Presidente, la lunga militanza nei business complessi e l’età mi hanno insegnato che quando un CEO dalla caratura di Carlos Tavares parla le sue parole devono essere considerate pietre. Nel business mai vivere come “ricatto” un dichiarato (disperato?) “punto di caduta”. In un contesto così imbarazzante, e per le persone normali incomprensibile, meglio fermarsi, tenere stretti i cordoni della borsa, e attendere che la nebbia si diradi.

Un caro saluto,

Riccardo Ruggeri

Post Scriptum. Le invio, in versione digitale, il libro “FIAT, una storia d’amore (finita) dove racconto, a volo d’uccello, con la feroce sincerità tipica dell’innamorato, i cinque momenti topici della FIAT del dopoguerra:

L’Impero 1947-1966

La scelleratezza 1967-1980

La viltà 1981-1995

La confusione 1996-2004

L’attesa della fine 2005-2014.

Alla luce di ciò che è avvenuto dopo il 2014, e di ciò che sta avvenendo, il libro oggi non è più un saggio di business e di management, ma un dagherrotipo di un mondo che fu: una storia d’amore vera fra le mura di un’officina dal pavimento in legno e dall’odore acre dell’olio esausto dei torni.

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