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Perché la Bce sbaglia a inseguire la Fed: le cause dell’inflazione sono diverse

La mossa della Bce rischia di portare danni certi sul fronte della crescita economica e vantaggi incerti sul fronte del contenimento dell’inflazione. L'analisi di Giuseppe Liturri.

 

Tra venerdì e lunedì sono arrivati dei dati molto interessanti sullo stato di salute dell’economia dell’eurozona e degli USA e sulle aspettative delle imprese per i prossimi mesi.

Venerdì S&P Global ha pubblicato gli indici anticipatori dell’attività economica per Usa ed Eurozona, e lunedì è stato pubblicato l’indice IFO relativo all’economia tedesca.

Si tratta di rilevazioni campionarie eseguite intervistando manager ed imprenditori che, quasi sempre, descrivono con notevole anticipo sia la direzione, sia l’intensità del livello di attività economica.

Il messaggio fondamentale che arriva da queste rilevazioni è che entrambe le economie sono in significativo rallentamento nel quarto trimestre e, in prospettiva, anche nel primo trimestre 2023, ma si tratta di un calo che non continua ad aggravarsi e, in alcuni casi, inverte la tendenza, pur restando in territorio negativo. Ma ci sono differenze tra Usa ed Eurozona che vanno sottolineate.

In dettaglio, negli USA l’indice composito (industria e servizi) a dicembre peggiora ancora rispetto a novembre (da 46,4 a 44,6, ricordiamo che il valore sotto 50 indica un peggioramento), allo stesso modo peggiora l’indice PMI (sintesi di situazione attuale e prospettive) da 47,7 a 46,2.

In sintesi, pare che negli USA si stia attenuando sensibilmente la pressione della domanda sulle filiere produttive che stanno cominciando a smaltire i ritardi nelle forniture e, al contempo, si sta moderando la pressione al rialzo sui prezzi. Questi dati lasciano intendere che la Fed, con la sua politica di rialzo dei tassi (dal 17 marzo fino al 14 dicembre ben 7 rialzi per complessivi 425 punti base) stia riuscendo nel suo obiettivo di contenere l’inflazione ma ad un costo crescente per l’economia. Infatti i dati di dicembre sono compatibili con una contrazione del PIL, su base annuale, del 1,5%.

Anche in Europa, siamo in territorio negativo, ma i segnali che arrivano per il mese di dicembre mostrano che il clima nel mondo degli affari è leggermente migliorato. L’indice PMI è salito da 47,1 a 47,8 e l’indice composito per industria e servizi si è attestato a 48,8 (47,8 a novembre).

È vero che si tratta del sesto mese consecutivo di rallentamento, segnato dalla minore tensione nelle catene di fornitura e minori ritardi nell’evasione degli ordini, ma emergono segnali incoraggianti sul fronte delle prospettive per l’inizio del 2023, che qualche mese fa apparivano peggiori rispetto ad oggi. Di rilievo il fatto che la debole domanda stia allentando le pressioni al rialzo dei prezzi e togliendo potere contrattuale alle imprese che vogliono trasferire gli aumenti dei costi sui prezzi di vendita.

I dati odierni sono compatibili con un calo del PIL dell’eurozona nel quarto trimestre dello 0,2% ed un calo ancora più contenuto nel primo trimestre 2023.

L’indice IFO relativo all’economia tedesca restituisce un quadro abbastanza simile. La valutazione dell’attuale stato dell’economia resta ampiamente in territorio negativo, su livelli che non si vedevano dal lockdown del 2020, ma il rimbalzo dai minimi è evidente. L’indice delle aspettative migliora a 83,2 (80,2 a novembre), quello sul clima generale degli affari è salito da 86,4 a 88,6. I servizi e tutti i comparti della manifattura (eccetto le costruzioni) contribuiscono al miglioramento.

Tra le determinanti nel miglioramento nella situazione e nelle prospettive, c’è sicuramente l’attenuarsi delle tensioni sul fronte dei prezzi energetici verificatosi da ottobre in poi.

Questi dati potrebbero avere importanti conseguenze sull’azione delle banche centrali.

Negli Usa, la Fed potrebbe considerarsi soddisfatta, avendo conseguito l’obiettivo di contenere l’inflazione a costi tutto sommato contenuti sul fronte di occupazione, salari e PIL. Non dimentichiamo l’eccezionalità e la rapidità di un aumento dei tassi pari a 425 punti in 9 mesi.

Nell’eurozona, dove il ciclo economico appare sfasato di circa 3-4 mesi rispetto agli Usa, la Bce potrebbe anch’essa moderare il ritmo dei rialzi (finora quattro interventi per complessivi 250 punti base). Anche considerando il ruolo finora preponderante nella crescita dell’inflazione recitato dalla componente energetica. È pur vero che, col passare dei mesi, i prezzi energetici hanno contagiato anche l’inflazione al netto di energia ed alimentari (cosiddetta “di fondo”) ancora in aumento a novembre al 5,6%. Ma, come correttamente rilevato da alcuni economisti, l’azione della Bce – pur doverosa, dovendo necessariamente uscire dall’anormalità di tassi negativi e liquidità in eccesso – rischia di portare danni certi sul fronte della crescita economica e vantaggi incerti sul fronte del contenimento dell’inflazione.

L’andamento pressoché piatto della dinamica salariale – ben diverso dal mercato del lavoro USA, ancora relativamente teso – dovrebbe anch’esso indurre il consiglio direttivo della Bce a maggiore prudenza rispetto ai colleghi di oltreoceano.

In conclusione, la Bce ha fatto bene a recuperare il tempo perso fino a giugno 2022, speso per capire cosa stesso accadendo, ma non ha senso inseguire la Fed, perché i segnali di rallentamento dell’economia europea sono evidenti e premere ancora sul freno (rialzando ancora i tassi) porterebbe più costi che benefici.

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