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Disney

Alla Disney è sfuggito di mano il politically correct?

Nel caso della Disney e di altre società americane l’agenda del politicamente corretto e della protezione delle minoranze è diventata ormai un’ossessione, se non una quasi-religione dai contorni di sconcertante intolleranza. Estratto da un commento dell'economista Riccardo Puglisi pubblicato su Il Riformista

 

Mi piace essere preciso: il primo cortometraggio di Walt Disney che ha come protagonista Topolino e Minnie è “Steamboat Willie” del 1928: dopo quasi 100 anni possiamo ben dire che la società Disney fondata dall’eccelso creatore di Topolino, Paperino, Zio Paperone etc. etc. ha avuto un successo gigantesco: a oggi la società vale più di 200 miliardi di dollari.

Ma non sono tutte rose e fiori dal punto di vista della becera analisi finanziaria: nel 2021 la società valeva quasi il doppio rispetto a oggi. Secondo alcuni la (relativamente) brutta china presa dalla Disney è anche dovuta alla scelta di abbracciare in maniera quasi ossessiva l’agenda liberal e postmoderna del politicamente corretto, della cosiddetta DEI (Diversity, Equity, Inclusion), secondo cui l’obiettivo preminente dell’azione politica e sociale dei cittadini, delle imprese e delle istituzioni “illuminate” consiste nel riparare i torti subiti dalle minoranze sociali, etniche e di genere che nel corso della storia sono state oppresse. […]

A parte i facili scherzi (tra parentesi: speriamo di non dare idee su censure prossime venture), nessuno potrebbe mai negare che la storia umana – e in particolare quella americana, dato che stiamo parlando della Disney – per lungo tempo si sia caratterizzata per la presenza di discriminazione e violenza nei confronti di minoranze o di gruppi con minore potere, ma nello stesso modo nessuno dovrebbe dimenticarsi di quanto progresso sia stato fatto a partire dagli anni ’50 del secolo scorso, dai tempi di Truman, Kennedy e soprattutto Lyndon Johnson, nella fattispecie sul tema dei diritti civili negati agli afroamericani. E durante il secolo scorso anche la parità di genere, pur non completa soprattutto sotto il profilo economico dei salari e delle progressioni di carriera, ha compiuto dei passi sacrosanti e giganteschi. Ma nel caso della Disney e di altre società americane l’agenda del politicamente corretto e della protezione delle minoranze è diventata ormai un’ossessione, se non una quasi-religione dai contorni di sconcertante intolleranza. […]

Tornando al tema iniziale, è notizia di qualche giorno fa la decisione di Elon Musk, proprietario di Tesla, Space X e di X fu Twitter, di coprire le spese legali di chiunque sia stato discriminato o licenziato dalla Disney a motivo di dichiarazioni o posizioni non coerenti con la policy aziendale di cui sopra. La prima persona beneficiata da questo intervento è l’attrice Gina Carano, […] che fu poi licenziata per alcune dichiarazioni via social network, in particolare quella secondo cui i conservatori negli USA rischiavano di venire trattati come gli ebrei dalla gente comune sobillata dalla propaganda dei nazisti. Si trattava di una dichiarazione pessima, ma la domanda che sorge spontanea è quella relativa alla simmetria di trattamento: come sarebbe stata trattata un’attrice o un attore che avesse usato la stessa metafora per descrivere il trattamento degli afroamericani negli USA da parte della polizia? (il caso rilevante è quello dell’uccisione di George Floyd da parte del poliziotto Derek Chauvin a Minneapolis il 25 maggio 2020). A parte la questione specifica di Gina Carano, l’aspetto più generale e più inquietante sollevato da Elon Musk è l’esistenza di un documento interno alla Disney sugli “standard di inclusione”, che devono essere seguiti sia nell’organizzazione del lavoro interno e nella cernita dei fornitori, che soprattutto nella scelta dei personaggi da includere nei film e nei cartoni animati, che – nel caso di presenze regolari e ricorrenti – per almeno il 50% devono appartenere a “gruppi sottorappresentati”.

Come si è potuti arrivare a regole così rigide e oppressive della libertà creativa? Fino a dove arriverà la tracotanza postmoderna – e parecchio sciocca – secondo cui l’appartenenza a un gruppo oppresso conferisce ragione a prescindere, anche nel produrre arte e cultura? Alla Disney dovrebbero ricordarsi della lezione eterna che dalla tragedia greca arriva persino all’arte comica di Steamboat Willie: il tracotante Gambadilegno finisce accecato dal suo stesso tabacco.

(Estratto da un articolo di Riccardo Puglisi pubblicato su Il Riformista)

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