Netflix, Amazon Web Services (AWS) e Cloudflare hanno presentato ricorsi al Tar del Lazio contro la delibera con cui l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) ha esteso l’obbligo di autorizzazione generale anche alle società che possiedono, gestiscono o controllano Content Delivery Network (CDN). La decisione dell’Agcom, risalente allo scorso agosto, equipara infatti tali infrastrutture ai servizi di telecomunicazione tradizionali, il che avrebbe effetti giuridici ed economici rilevanti per le Big Tech.
LA DELIBERA DELL’AGCOM E IL NUOVO QUADRO REGOLATORIO
Ad agosto, l’Agcom ha approvato gli esiti della consultazione pubblica sulle CDN con la delibera 207/25/CONS, riconducendo tali infrastrutture alla definizione di reti di comunicazione elettronica ai sensi dell’European Electronic Communications Code (EECC). In base a tale inquadramento, anche le società che le gestiscono sono soggette al regime di autorizzazione generale previsto per gli operatori di telecomunicazioni.
Come già spiegato dal presidente dell’Autorità, Giacomo Lasorella, la delibera non introduce network fee né interviene sul mercato dell’interconnessione e il provvedimento è stato trasmesso al ministero delle Imprese e del Made in Italy (MIMIT) “per i seguiti di competenza”, senza obblighi o scadenze per un regolamento attuativo. L’Agcom ha inoltre sottolineato che la misura non rappresenta un ritorno del dibattito sul “fair share”, ma solo la possibilità di arbitrati tecnici tra operatori in caso di controversie.
CHE COSA SONO LE CDN E PERCHÉ SONO AL CENTRO DELLA DISCUSSIONE
Le Content Delivery Network sono reti di server distribuiti che replicano e consegnano contenuti digitali – video, pagine web, software – da nodi geograficamente vicini all’utente, riducendo latenza e congestione. Il dibattito nasce quando tali infrastrutture operano in modalità “mixed use”, combinando attività di caching e calcolo tipiche del cloud con la distribuzione di contenuti. In questi casi, la componente di trasporto può essere interpretata come servizio di comunicazione elettronica, con il rischio di estendere impropriamente la regolazione telco a funzioni cloud.
Alla consultazione che ha preceduto la delibera hanno partecipato con posizioni spesso contrapposte Google, Meta, Amazon (sia AWS sia Prime Video), Microsoft, Netflix, Akamai, Dazn, oltre a Tim, Vodafone, WindTre, Fibercop, Rai Way, Retelit, Lepida e diverse associazioni di categoria.
LE POSIZIONI DELLE BIG TECH
Netflix, replicando al Sole 24 Ore, ha criticato la decisione dell’Agcom sottolineando che “finisce per equiparare le reti che trasportano dati su fibra alle infrastrutture private su cui viaggiano film e serie delle piattaforme streaming”. La società ha definito la misura “un errore giuridico e di politica industriale controproducente”. E ha aggiunto: “Abbiamo fatto ricorso contro una decisione che di fatto regola le CDN e aziende come Netflix come se fossero un servizio di telecomunicazione. Non ci sono basi giuridiche a supporto ed è contraria al diritto europeo e italiano”.
Sulla stessa linea si è espressa Amazon Web Services, che ha dichiarato: “Le CDN sono fondamentalmente diverse dalle reti di comunicazione elettronica. Si tratta di un nuovo tentativo di introdurre un quadro normativo che imponga tasse di rete”, con il rischio per le imprese di “sostenere costi più elevati, subire un peggioramento della qualità del servizio, o entrambi”. AWS ha comunque ribadito la volontà di collaborare con le autorità italiane “per garantire un quadro regolatorio che sostenga l’innovazione” senza penalizzare la competitività.
IL RAGIONAMENTO DELL’AUTHORITY
Nella delibera di agosto, l’Agcom ha chiarito che le CDN costituiscono “un tipo specifico di rete, perché adatte a trasmettere segnali a mezzo di fibre ottiche”. Tale interpretazione segue la linea già tracciata nel caso Dazn del 2021, quando la piattaforma streaming fu assoggettata temporaneamente al regime di autorizzazione dopo i disservizi nelle prime giornate di Serie A.
Il commissario Massimiliano Capitanio aveva escluso che la delibera rappresenti “l’anticamera del fair share”, affermando che “non introduce alcun obbligo” in tal senso. Tuttavia, alcuni osservatori citati ad agosto dal Sole ritengono che l’estensione del perimetro regolatorio potrebbe indurre gli operatori a ricorrere all’Autorità per arbitrati con le CDN, aprendo indirettamente la strada a possibili pedaggi regolatori.
IL DIBATTITO SUL “FAIR SHARE”
Il tema del “fair share” – l’idea che i grandi generatori di traffico debbano contribuire ai costi di rete – è al centro della discussione europea, in particolare nel cantiere del Digital Networks Act (DNA). Inoltre, pur in assenza di un fallimento di mercato nell’interconnessione IP, la questione resta aperta e politicamente sensibile, soprattutto dopo l’aumento dei servizi di streaming e cloud.
In questa cornice, come riferito dal Sole, Netflix teme che l’estensione del regime telco alle CDN possa costituire un precedente regolatorio per l’introduzione di una network fee. La società avverte che essere classificate come operatori di telecomunicazioni potrebbe consentire all’Autorità di fissare tariffe di interconnessione, reintroducendo di fatto il principio dell’“equo contributo”.
I RISCHI ECONOMICI E INDUSTRIALI
Netflix, che di recente ha celebrato i dieci anni della sua presenza in Italia, ha richiamato anche i possibili effetti economici: “Costringere chi gestisce CDN a una licenza da operatore di telecomunicazioni significa scoraggiare gli investimenti in Italia. Potrebbe avere come conseguenza quella di portare i server altrove”. Secondo la società, questo comporterebbe che “i dati viaggerebbero più lontano, le connessioni diventerebbero più lente e la rete più congestionata. In breve, un internet peggiore”.
Nel dibattito italiano, lo scorso agosto, Pietro Labriola, ad di Tim, ha sostenuto la necessità di regole “uguali per tutti”, mentre Asstel ha accolto positivamente la delibera come passo verso una maggiore parità regolamentare. Tuttavia, altri esperti, tra cui Stefano Quintarelli, hanno osservato che trattare le CDN come reti telco rischia di irrigidire un meccanismo di efficienza che ha reso Internet più rapido e meno costoso.
LE PROSSIME MOSSE DEL MIMIT E IL CONTESTO INTERNAZIONALE
Secondo Il Sole 24 Ore, il MIMIT sta valutando la possibilità di un regolamento “semplificato” che tenga conto delle specificità delle piattaforme Internet. Una decisione potrebbe arrivare entro la fine dell’anno, anche in relazione all’evoluzione del Digital Networks Act europeo.
La tempistica dell’intervento Agcom, tuttavia, è considerata delicata anche a livello geopolitico. Dopo l’accordo commerciale tra Stati Uniti e Unione europea, che ha escluso l’introduzione di “network usage fees”, una riapertura del tema per via amministrativa potrebbe essere percepita da Washington come una violazione degli impegni assunti, con potenziali ripercussioni sui rapporti economici transatlantici.






