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Vi racconto le bizzarrie del governo neutrale e del rivotismo

I Graffi di Francesco Damato dopo le ultime consultazioni al Quirinale e le decisioni del capo dello Stato, Sergio Mattarella, per un governo neutrale Quei militari schierati nella Loggia delle Vetrate, al Quirinale, sullo sfondo del capo dello Stato impegnato ad esporre le sue riflessioni sugli sbocchi della lunga crisi di governo gestita per più…

Quei militari schierati nella Loggia delle Vetrate, al Quirinale, sullo sfondo del capo dello Stato impegnato ad esporre le sue riflessioni sugli sbocchi della lunga crisi di governo gestita per più di sessanta giorni, erano francamente di troppo. Essi avrebbero dovuto dismettere le divise per indossare camici da medici o infermieri. Lo spettacolo in corso, inedito nella lunga storia della Repubblica, era quello dell’aborto, in diretta  televisiva, della legislatura concepita dagli elettori nelle urne del 4 marzo.

La diciottesima legislatura ha avuto la forza di produrre solo i suoi vertici parlamentari, in una logica spartitoria improvvisata dai presunti “vincitori” delle elezioni, i grillini a sinistra e i leghisti a destra, ma nulla di più. Non certo un governo in quel perimetro politico, o in un altro ugualmente politico, con i leghisti sostituiti dal Pd. Pertanto il capo dello Stato, passando dal massimo della pazienza al massimo dell’impazienza, ha deciso di fare di testa sua, usando le prerogative costituzionali al massimo dell’espansione di quella fisarmonica alla quale i tecnici sono soliti paragonare il polmone politico del presidente della Repubblica.

Piuttosto che imboccare la strada delle elezioni anticipate col governo dimissionario di Paolo Gentiloni, forse perché lo stesso Gentiloni potrebbe diventare nel suo partito il candidato ufficiale alla presidenza del Consiglio nella campagna elettorale, Mattarella ha deciso di costituire un governo del tutto nuovo e inedito, come lo spettacolo dell’aborto della legislatura in diretta televisiva. E’ il governo che lui ha voluto definire “neutrale”, pensando di potere garantire questa neutralità con una particolarissima regola di ingaggio, diciamo così, del presidente del Consiglio e dei ministri: ai quali, scegliendoli personalmente uno ad uno, chiederà l’impegno a non candidarsi in alcun modo alle elezioni. Come invece fece con i suoi tecnici, veri o presunti, Mario Monti nel 2013 sorprendendo l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che pure l’aveva nominato preventivamente senatore a vita proprio per metterlo al riparo da una tentazione del genere. E non solo per garantirgli un minimo di immunità parlamentare in uno scenario giudiziario come quello italiano, in cui il primo pretorino d’assalto può abbattere come un birillo anche un capo di governo.

Un governo “neutrale” è un po’ un ossimoro, perché esso è necessariamente parte, non tutto, in un sistema parlamentare quale ancora è il nostro. Deciso dal capo dello Stato al termine, o nel mezzo, di una lunga crisi sfuggita anche alle esplorazioni dei presidenti delle Camere, un governo del genere potrebbe essere chiamato “di cortesia” nei riguardi dello stesso presidente della Repubblica. Una cortesia chiesta naturalmente dal capo dello Stato mandando il Gabinetto ministeriale in Parlamento per il passaggio obbligatorio della fiducia. Mancando la quale, però, il governo diventa automaticamente di “scortesia” al presidente della Repubblica, come già si delinea, prima ancora di essere formato, vista la maggioranza dei no annunciata da leghisti e grillini.

D’altronde, e curiosamente, lo stesso Mattarella nel momento di annunciare il “suo” governo ne conosceva la sorte. Presentato come una forma provvisoria, immaginata a sua volta con scadenza a fine anno per votare nella primavera del 2019, ma liquidabile al primo comparire di una maggioranza politica finalmente raggiunta fra i partiti rappresentati in Parlamento, il governo “neutrale” dovrebbe automaticamente dimettersi se ottenesse la fiducia, che è di per sé una fiducia politica, per quanti altri aggettivi gli specialisti di turno possano coniare.

Ora che sembra prevalso quello che l’indimenticabile Giovanni Sartori definiva sarcasticamente “il rivotismo”, la presunzione cioè di risolvere i problemi  della cosiddetta governabilità, anche di sistema, rimandando gli italiani alle urne prima delle scadenze ordinarie, e per giunta adottando ogni volta una legge elettorale diversa, la cosa che sembra interessare di più è la data del voto. A luglio, in piena estate, come reclamano insieme leghisti e grillini? In autunno, come raccomanda Berlusconi? Nella primavera dell’anno prossimo, come preferirebbe Mattarella? Speriamo che nella foga delle polemiche, e degli interessi di parte, nessuno dimentichi che la scelta della data delle elezioni spetta per legge al Consiglio dei Ministri, cioè al governo “neutrale” che Mattarella si è proposto di formare. E alla cui deliberazione quindi lui per primo sarebbe obbligato con la controfirma del relativo decreto, a meno di un clamoroso dissenso.

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