Giorni e ore di bilancio – e non solo per l’omologa legge in uscita anche dalla Camera, nello stesso testo appena ricevuto dal Senato- questi che ci separano dalla fine del 2025. Ma anche, o soprattutto, giorni e ore di previsioni, auspici e malauguri, naturalmente, secondo gusti e appartenenze politiche, per l’anno nuovo. Il 2026, per esempio, che le opposizioni, pur divise come al solito anche sui temi della giustizia, in particolare il Pd, sognano nero di pece per la riforma costituzionale della magistratura -come la chiama, compiaciuto, l’insospettabile Antonio Di Pietro- sotto verifica referendaria.
La premier Giorgia Meloni, diversamente da Matteo Renzi una decina d’anni fa per una riforma costituzionale più ampia e organica, non ne ha fatto e non ne fa una questione personale. Ha già avvertito che non sono in gioco né lei, né il governo, né il ministro della Giustizia Carlo Nordio. Che Marco Travaglio sogna goliardicamente, diciamo così, di vedere affogato nel “mezzolitro”, tutta una parola, di vino o nel “fiasco”, sempre di vino, che gli ha assegnato come soprannome.
Ma da questo orecchio le opposizioni non ascoltano. Del resto, non c’è più sordo di chi non vuole ascoltare, dice un vecchio proverbio. Il sempre vigile, dichiarante e battutista capogruppo del Pd al Senato Francesco Boccia predice ogni volta che ne ha l’occasione effetti irrimediabili sul governo qualora la riforma Nordio, chiamiamola così, più brevemente ancora della magistratura chiamata in causa da Di Pietro non dovesse superare il referendum: Del quale però, più cautamente, amici e compagni di Boccia vorrebbero ritardare al massimo la data ammettendo che al no mancano ancora troppi punti per vincere. E scommettendo di poter essere aiutati dal tempo. Ma -temo per loro- con una certa imprudenza perché col tempo crescono anche le occasioni di autorete dei magistrati asserragliati nella difesa delle loro cattive abitudini, consolidatesi dopo gli straripamenti negli anni di “mani pulite”, una trentina d’anni fa. Quando si verificò “un brusco cambiamento degli equilibri” fra politica e giustizia certificato nella famosa lettera inviata su carta intestata, e diffusa pubblicamente, dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano alla vedova di Bettino Craxi nel decimo anniversario della morte del marito in terra tunisina.
E’ una lettera, quella o questa di Napolitano, per il valore anche etico e attuale che mantiene, che non deve avere convinto l’ex ministra Rosy Bindi, la frontwomen della campagna referendaria del no, che va rappresentando la riforma sotto verifica referendaria come un attacco agli equilibri costituzionali, non come un loro ristabilimento. Peccato che Napolitano sia morto e non possa difendersi.
Scrivevo delle brutte abitudini dei magistrati e delle occasioni che non si lasciano scappare per deludere da chi aspetta da loro un po’ di razionalità. Non dico di più. Come quella appena negata dal capo della Procura nazionale antiterrorismo e da quello della Procura di Genova che hanno fatto seguire all’operazione appena condotta da loro colleghi contro i fiancheggiatori, a dir poco, del terrorismo targato Hamas la precisazione che i veri “criminali” a Gaza e dintorni sono gli israeliani, con la loro pretesa di reagire agli attacchi, di difendersene e di prevenirne di nuovi.
Il 2026 non sarà comunque solo l’anno politicamente significativo del referendum sui magistrati. Sarà l’anno anche della riforma del premierato, che le opposizioni da un po’ di tempo-com’era del resto accaduto pure per l’altra- immaginano dimenticata o abbandonata dalla Meloni. E che invece arriverà, per l’’elezione difetta del presidente del Consiglio, come nei piani della premier. Una riforma che ha per la sinistra l’inconveniente non di un depotenziamento del Presidente della Repubblica eletto invece dal Parlamento, ma più semplicemente e banalmente, come preferite, quello di doversi dare un leader prima del voto, fra i tanti che, veri o presunti, vi ambiscono col risultato che l’alternativa non ne ha, in realtà, nessuno degno di questo nome.





