Sta per terminare un anno iniziato con la prospettiva che Donald Trump avrebbe fatto affondare gli Usa tra i due oceani e che la UE avrebbe accolto i naufraghi del disastro Usa, primeggiando sui mercati finanziari e nel panorama geopolitico mondiale.
È finita con gli Usa in crescita del 4,3% nel terzo trimestre, con Wall Street che macina record e con Trump che dà le carte su tutti i tavoli, osannato pure dal Wall Street Journal. Invece la Ue è costretta a prendere ceffoni da Pechino, come uno Staterello qualsiasi, si è rimangiata mezzo Green Deal (auto, sostenibilità, ecc…) che Ursula von der Leyen aveva pomposamente proposto nella precedente Commissione, con toppe che in molti casi sono peggio del buco, con la crescita che langue e con le Borse europee che hanno subito una evidente rimonta negli ultimi 8 mesi. Per non parlare del disastro della vicenda del prestito all’Ucraina, facendo leva sui fondi russi sequestrati.
Allora si impongono due riflessioni. La prima sulla credibilità di molti commentatori che, con incredibile sicumera, tra febbraio ed aprile
La seconda riflessione riguarda la fede indiscussa nella Ue. Sull’efficacia, sempre più scarsa, di questo ibrido assetto istituzionale nel garantire e migliorare il benessere dei circa 450 milioni di abitanti. Una domanda che evidentemente non si sognano nemmeno di porsi i numerosi politici, prevalentemente del PD, che qualche settimana fa hanno orgogliosamente esposto sui social la bandiera della Ue. Pronti quasi a sguainare la spada, solo perché Trump ha dichiarato che la Ue è debole e non funziona. Non proprio una novità da oltreoceano. Chissà se costoro, aldilà dell’adesione fideistica, abbiamo mai riflettuto sull’effettivo contributo della Ue al benessere dell’Italia e degli altri 26 Stati membri.
Così, giusto per poter rivendicare con ancora maggior orgoglio, davanti alle ripetute accuse di Donald Trump, che la Ue è un progetto che nei suoi primi 33 anni (di cui 26 anche con la moneta unica) ha costituito un vantaggio per i Paesi aderenti, rispetto alla situazione ante 1992.
In questa direzione, è di qualche giorno fa un inatteso assist del professor Francesco Giavazzi a proposito delle lezioni da trarre per l’Italia osservando la Corea del Sud e Taiwan. Concentrandoci sulla prima, troviamo parecchi tratti che la rendono comparabile al nostro Paese: pur con una popolazione coreana lievemente inferiore, entrambe sono economie industriali avanzate e si collocano tra le prime potenze manifatturiere globali (l’Italia è spesso al settimo posto, la Corea del Sud al quinto) con forte vocazione all’esportazione.
Allora, utilizzando il database della World Bank, abbiamo osservato l’andamento del PIL pro capite, misurato a parità di potere d’acquisto (per tenere conto del diverso livello di costo della vita) e a dollari costanti 2021 (per neutralizzare l’effetto cambio). Ed abbiamo scoperto che nel 1990 l’Italia – quella tanto vituperata di Tangentopoli, per intenderci – vantava un invidiabile Pil pro capite di 42.657 dollari. Molto vicino a quello degli Usa ($ 44.379) e nettamente superiore a quello della Ue ($ 33.427) e della Corea del Sud ($ 13.840).
Facendo un rapido salto in avanti di 34 anni, arriviamo ad oggi e troviamo che la Corea ha quasi agganciato l’Italia ($ 50.414 contro $ 53.115), gli Usa sono decollati verso lo spazio ($ 75.492) e la Ue ci ha pure superato ($ 54.291). Osservando la dinamica nel tempo, l’Italia è riuscita a tenere il passo della crescita fino alla fine degli anni ’90, per poi iniziare un lungo declino, particolarmente grave nel decennio iniziato con la “cura Monti che ha salvato l’Italia” del 2011-2012 e i successivi governi Letta, Renzi, Gentiloni.
A prescindere dalla specificità dell’andamento dell’Italia, anche la Ue nel suo complesso ha progressivamente ampliato la larghezza della forbice rispetto agli Usa. In 35 anni, oltreoceano hanno aumentato il Pil complessivo (tenendo quindi conto della componente demografica) del 350%, la UE poco meno del 200% e l’Italia all’incirca il 100%. Da considerare che la crescita della Ue tiene conto dell’ingresso dei 12 Paesi orientali tra 2004 e 2007. La dinamica e il confronto appaiono particolarmente sfavorevoli dopo la doppia crisi del 2008-2009 e 2011-2012. Usa e Corea hanno recuperato con notevole rapidità e ripreso la crescita col passo pre crisi, Italia e Ue sono cadute in un decennio di torpore che nemmeno la ripresa post Covid è riuscito a scuotere.
Pare quasi superfluo sottolineare che – per ammissione di protagonisti di quegli anni come Paolo Gentiloni e Mario Draghi – quella modesta performance sia stata il risultato di una serie di fallimentari politiche economiche a loro volta esito di una struttura istituzionale gravemente disfunzionale. Risuonano ancora le parole quasi balbettanti di Draghi in Commissione parlamentare il 18 marzo scorso (“noi in quegli anni pensavamo… tenevamo i salari bassi come strumento di concorrenza”) per descrivere le cause di questo declino. Cambiando l’angolo di osservazione i risultati non cambiano: l’andamento del rapporto tra PIL pro capite Ue e Usa, a partire dalla crisi del 2008-2009 è una linea verticale in caduta libera. In termini nominali, il Pil pro capite di un cittadino Ue oggi è poco meno del 50% di quello di un cittadino Usa. Aldilà dei numeri è rilevante anche il freno del mostro regolatorio che è la UE: basti pensare che decine di migliaia di imprese sono state tenute per mesi in ostaggio dell’obbligo del report di sostenibilità e della due diligence sui fattori ESG, per poi liberarle solo pochi giorni fa. Non si riesce nemmeno a misurare lo spreco di tempo e denaro che c’è stato nel frattempo. Potremmo andare più lontani nel tempo e ricordare la crisi bancaria provocata tra 2015 e 2016 dall’assurda legge sul bail-in.
Ma da soli saremmo andati peggio e saremmo affondati nel Mediterraneo, si affrettano a precisare e controbattere dal Colle (un arbitro che si sbilancia così su un tema almeno controverso…)seguito dalle Picierno, i Gori, i Gentiloni et similia. Perché la massa critica per competere oggi nel mondo e stare al passo di Usa e Cina è solo quella raggiungibile stando uniti. Un argomento smentito dai fatti. Per essere efficaci, non è necessario essere grandi. Ed essere grandi non è condizione sufficiente per essere efficaci, come purtroppo la Ue dimostra ogni giorno.
Stendendo un velo pietoso sul drastico calo di investimenti pubblici causato dall’austerità di bilancio imposta da Bruxelles, allora viene da chiedersi perché la Corea non sia affondata nel Mar Giallo o Seoul non abbia deciso una (mortale) alleanza con la Cina o con il Giappone, facendo l’Unione Asiatica.
La risposta ce l’ha fornita proprio Giavazzi ieri su un piatto d’argento: «il governo della Corea del Sud intervenne sin dall’inizio per mantenere i salari alti […] il governo favorì la ricomposizione dell’industria attraverso il credito pubblico […] che fu il fattore determinante di quella rapida crescita».Esattamente ciò che nella Ue è risultato impossibile, perché sarebbe scattata la tagliola del divieto di aiuti di Stato. La leva per la competitività è stata, per ammissione di Draghi, quella della corsa alla compressione della crescita salariale. Ma forse Giavazzi ha dimenticato che l’Italia è nella Ue da 33 anni, perché afferma che «comprimere i salari e proteggere le imprese dalla concorrenza internazionale, come si è fatto a lungo in Italia, sono entrambi freni alla crescita». Possibile che in quasi due anni a Palazzo Chigi, Draghi non gli abbia detto che quelle scelte sono l’effetto di un’unione disfunzionale, soprattutto quella monetaria?
È benvenuta la lezione secondo cui «bassi salari non significano solo bassi redditi, scarsi consumi e crescita asfittica. Significano anche scarsi pungoli a puntare sulla produttività», ma l’invito a riflettere rivolto a Giorgia Meloni, avrebbe dovuto contenere l’essenziale precisazione che quelli sono i pilastri della politica economica della Ue, e che quindi, per essere coerente, Giavazzi avrebbe dovuto anche indicare la via dell’uscita. In quel caso, l’Italia sarebbe potuta





