Gli ultimi giorni sono stati decisamente intensi per la US Navy in virtù di due annunci, uno più importante dell’altro, arrivati in rapida successione. Tema di entrambi, scelte riguardanti la composizione futura della propria flotta di superficie, con specifico riferimento alle navi da combattimento.
Il primo arriva il 19 dicembre, in parte inatteso ma nella restante parte in qualche modo prevedibile; i vertici politico e militare della US Navy comunicano la scelta del progetto che costituirà la base di partenza per la nuova classe di fregate a oggi nota come FF(X). Non una una grande sorpresa, come detto; laddove ben diverso invece è ciò che accade appena 3 giorni dopo e cioè il 22 dicembre.
Dalla sua residenza di Mar-a-Lago è il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump (affiancato dal Segretario alla Guerra Hegseth, da quello di Stato Rubio e dal Segretario alla Marina Phelan) ad annunciare di aver approvato la costruzione delle prime 2 unità della futura classe di “battleships” che prenderà il suo stesso nome. Ebbene, qui invece la sorpresa è davvero notevole!
In realtà, va fin da subito evidenziato che l’arrivo di queste nuove unità non giunge del tutto inaspettato. Infatti, già nel suo discorso alla “famosa” riunione voluta dallo stesso Hegseth il 30 settembre scorso con i tutti i più alti in grado tra i Generali e gli Ammiragli delle Forze Armate Usa, il Presidente Americano aveva fatto una serie di espliciti riferimenti alle “battleships”.
Nei mesi successivi erano poi emerse indiscrezioni sui piani sponsorizzatati sempre da Trump per la creazione di una cosiddetta “Golden Fleet”; cioè la futura flotta della US Navy che dovrà avere tra le sue componenti più importanti proprio queste “navi da battaglia”. Tuttavia, dato che fino a oggi tutto questo era rimasto comunque nel vago, l’arrivo pressoché improvviso di questa grossa novità ha inevitabilmente destato un enorme interesse.
UN QUADRO D’INSIEME
Il punto da cui partire per un’analisi della situazione attuale della US Navy è rappresentato dalla fortissima competizione in atto con la PLAN (cioè, la Marina Cinese); quest’ultima è oggetto da almeno un paio di decenni di una crescita addirittura esponenziale, al punto di aver ormai sorpassato la Marina Americana come numero di navi. Crescita che peraltro non accenna a rallentare, ponendo la US Navy in una condizione di crescente difficoltà.
Accade così che Washington sia impegnata da tempo nella elaborazioni di piani destinati a potenziare la flotta i quali però, uno dopo l’altro, alla fine non riescono ad avere seguito per tutta una serie di motivi. A questa sorta di “rituale” che sta attraversando ormai ogni Amministrazione che occupa la Casa Bianca, non poteva certo mancare quindi il suo attuale inquilino; il quale, come detto, propone questo concetto della “Golden Fleet” di cui però a oggi si sa molto poco.
Oltre alle “battleships”, essa sarà composta da unità più tradizionali, da altre che rappresentano una qualche novità per la filosofia di pensiero Americana (cioè delle corvette) e da altre ancora che sono invece una novità pressoché assoluta (e cioè i “droni navali”). Tutto dunque molto sfumato; almeno fino a lunedì scorso quando invece è arrivato l’annuncio di Mar-a-Lago.
UN ATTIMO DI CHIAREZZA SULLE BATTLESHIP
Prima di proseguire oltre, pare opportuno proporre un passaggio all’insegna della chiarezza; la definizione di “battleship” (comunemente declinata in “corazzata” in Italiano) è infatti associata a un tipo di nave comparso nelle flotte mondiali in un periodo compreso tra metà del XIX secolo e la Seconda Guerra Mondiale. Proprio quel conflitto ne segna il tramonto definitivo in quanto ormai superate per svariate ragioni; anche se alcune di queste (le 4 navi della classe Iowa) resteranno in servizio nella Marina Americana e saranno impiegate nella Guerra di Corea, poi di nuovo in quella del Vietnam (appositamente riattivate) e infine reimmesse nuovamente in servizio (profondamente ammodernate) negli anni ‘80. Oggi queste navi sono state tutte trasformate in musei ma il loro mito rimane ancora forte negli ambienti navali Americani.
Tutto questo per dire cosa? Che guardando le caratteristiche delle future unità annunciate da Trump è evidente che la definizione “battleships” appare ben poco aderente alla realtà; rispondendo al contrario più a una logica perfino “propagandistica”. In linea peraltro con quella che è una delle cifre caratteristiche dell’azione dell’attuale Presidente Americano.
COSA SAPPIAMO A OGGI DI QUESTE NAVI
Intanto sappiamo il nome della prima unità e cioè Defiant, così come la classificazione adottata per questo programma dalla US Navy e cioè BBG(X). Che si punta alla realizzazione di un primo lotto di 10 navi, anche se il requisito finale potrebbe salire fino a 20 o anche 25. E poi sappiamo anche che la Marina Americana ha la guida nelle attività di definizione/progettazione delle caratteristiche della piattaforma (pur avvalendosi della collaborazione di un’azienda specializzata come Leidos Gibbs&Cox); il tutto con l’obiettivo di iniziare la costruzione della Defiant stessa nei primi anni ‘30.
A livello di dimensioni, si è di fronte a qualcosa di oggettivamente impressionante. A oggi, la lunghezza è indicata in un range compreso tra i 256-268 metri, la larghezza massima tra i 32-35 metri per un pescaggio compreso tra i 7 e i 9 metri. Il dislocamento è previsto possa essere superiore alle 35.000 tonnellate; forse anche 40.000.
L’impianto propulsivo sarà basato su turbine a gas e generatori diesel, sicuramente in una configurazione concepita per poter produrre una grande quantità di energia elettrica utile per i sistemi di bordo, per i sensori e per le armi imbarcate. La velocità massima viene indicata in oltre 30 nodi. Tra gli altri dati salienti infine, l’equipaggio; per ora stimato tra i 650 e gli 850 uomini.
Molto ricca la dotazione di sensori e sistemi d’arma; dato che questa piattaforma dovrà essere in grado (ovviamente) di svolgere molte missioni. Il radar principale per la scoperta/difesa aera sarà la versione più grande (e performante) dell’AN/SPY-6. Detto della presenza di sistemi di guerra elettronica e di non meglio precisati sistemi per il contrasto dei droni, è tempo di passare ai sistemi d’arma. Sulle BBG(X) troveranno posto 128 celle di lancio verticali o VLS (per ospitare i vari missili oggi in dotazione nonché il futuro missile da crociera con testata nucleare o SLCM-N), più altre 12 dedicate ai missili ipersonici.
È poi prevista l’istallazione di 2 pezzi da 127 mm più un cannone “railgun”da 32 MJ (novità interessante). Infine, per la difesa dell’unità sono presenti 2 impianti RAM per la difesa di punto, coadiuvati da 4 cannoni da 30 mm, da 2 laser ad alta potenza e altri 4 di più bassa. Di dimensioni generose sono previsti il ponte di volo e l’hangar (al fine di ospitare anche convertiplani V-22 e altri modelli futuri). Infine, grazie ad avanzati sistemi di comunicazione, comando e controllo, è anche contemplata una spiccata capacità di gestire droni di vario tipo.
BBG(X), REALTÀ O FINZIONE?
Il quadro sia pure non definitivo fin qui tracciato restituisce con tutta evidenza una piattaforma dalle caratteristiche/capacità operative potenzialmente davvero importanti nonché complete; sia in funzione di attacco, sia in ambito difesa.
Non appena però si prova ad approfondire la questione, ecco emergere subito i primi (forti) dubbi. Sul fronte dei costi, per esempio; dato che stime realistiche immaginano che una singola unità potrebbe facilmente arrivare a costare 15 miliardi di dollari, ovvero più della metà dell’attuale budget della US Navy delicato all’acquisto di navi. Una cifra dunque enorme, considerando anche la molteplicità di programmi costosi in corso oggi e in futuro per la Marina Americana stessa (tra portaerei e sottomarini, in particolare).
Poi c’è l’aspetto legato alle capacità produttive dei cantieri USA; sia HII (Huntington Ingalls Industries) che BIW (Bath Iron Works), i 2 principali gruppi cantieristici che saranno coinvolti nel programma, soffrono di problemi e limiti in termini di capacità produttive. Il rischio dunque è che, anche se si arrivasse alla fase costruttiva vera e propria, vuoi per questo motivo e vuoi per i rischi di varia natura legati a simili piattaforme così complesse, i tempi di realizzazione potrebbero dilatarsi a dismisura.
Infine, l’aspetto tecnico-operativo. Ha cioè davvero senso una simile piattaforma negli scenari di oggi e ancora più di domani? Ovvero, ha davvero senso concentrare così tante capacità (a costi così elevati) in una singola nave, con il rischio che qualora andasse perduta sarebbe poi difficile da sostituire? Domande non casuali, dato che la stessa US Navy punta da tempo su un concetto operativo noto come Distributed Maritime Operations (DMO) che prevede proprio la dispersione di capacità/effetti su più navi per aumentare sia letalità della flotta sia la sua capacità di sopravvivenza.
Insomma, detto in maniera perfino brutale, la sensazione che mai come in questo caso si stia assistendo alla nascita di un programma già “morto”; con pochissime possibilità cioè che veda effettivamente la luce non sarebbe la prima volta; sia chiaro. Il punto però è che un nuovo fallimento questa volta potrebbe avere conseguenze davvero molto pesanti per il futuro della US Navy.





