Prima del nuovo decreto sul “semestre filtro”, il sistema di accesso ai corsi di Medicina, Veterinaria e Odontoiatria aveva già un paradosso noto a tutti: con tre diciotto si entrava, con due trenta e un diciassette si restava fuori. Non era giusto, ma era chiaro. Si poteva discutere il criterio, non l’esito. O superavi tutti gli esami, o no. Il merito era ridotto al minimo, ma almeno restava leggibile.
Chi superava tutti e tre gli esami accedeva alla graduatoria nazionale; chi ne falliva anche solo uno restava escluso. Essere “dentro” non significava automaticamente immatricolarsi, ma entrare nella graduatoria fino a esaurimento dei posti disponibili.
Prima del decreto il criterio, per quanto discutibile, era semplice e noto: contava il numero di esami superati. Chi ne superava tre stava sopra chi ne superava due, anche se questi due erano da trenta. Tre diciotto battevano due trenta e un diciassette. Il trenta, in quel sistema, era sostanzialmente irrilevante.
Con il nuovo decreto cambia qualcosa di più profondo. Non solo continua a valere il principio per cui tre esami superati contano più di due, ma si introduce una gerarchia anche tra studenti che hanno superato lo stesso numero di esami.
Il nuovo meccanismo non si limita a stabilire chi supera o meno il semestre filtro. Introduce una classificazione preventiva degli studenti che prescinde dai voti finali e si fonda sulla loro storia amministrativa. Oggi può accadere che uno studente con due diciotto venga collocato stabilmente sopra uno studente con due trenta, non perché i suoi voti contino di più, ma perché si trova in una sezione di graduatoria considerata “migliore” dal punto di vista procedurale. Il voto alto diventa penalizzante. Nove sezioni di graduatoria, ciascuna con un diverso “bonus” iniziale, separano gli studenti in blocchi rigidi prima ancora che i punteggi vengano sommati. Il risultato è che non tutti competono più nella stessa gara. Alcuni partono davanti, altri non possono nemmeno avvicinarsi.
Il punto decisivo è che il sistema non guarda solo a quanti esami sono stati superati, ma a come sono stati superati. In particolare, al comportamento tenuto tra primo e secondo appello. Il rifiuto di un voto — facoltà prevista e legittima — diventa un marchio che accompagna lo studente per tutta la graduatoria. Anche se il voto viene poi accettato. Anche se l’esito finale è identico a quello di chi non ha rifiutato nulla. La penalizzazione resta.
Così, mentre prima il sistema penalizzava chi non superava tutti gli esami, oggi penalizza anche chi li supera, se lo fa “nel modo sbagliato”. Il merito non è più soltanto una soglia da raggiungere, ma una traiettoria da non interrompere. Non basta arrivare allo stesso risultato: bisogna arrivarci senza deviazioni.
Il meccanismo dei bonus rende questa logica irreversibile. I punti aggiuntivi non servono a premiare, ma a blindare. Creano compartimenti stagni che impediscono qualsiasi confronto reale tra studenti collocati in sezioni diverse. Chi parte con un bonus inferiore può accumulare voti più alti, ma non colmerà mai la distanza strutturale che lo separa da chi si trova in una sezione superiore.
Il messaggio implicito è netto. Non conviene migliorare se questo comporta un rischio. Non conviene rifiutare un voto basso per tentare di fare meglio. Non conviene, in sostanza, studiare di più se questo significa uscire anche solo temporaneamente dal percorso lineare previsto dal sistema. Conviene accettare, conformarsi, non lasciare tracce amministrative “imperfette”.
La questione del merito, del numero chiuso e dei criteri di accesso a Medicina, Veterinaria e Odontoiatria è da tempo oggetto di un dibattito ampio e spesso ideologico. Non è questo il terreno su cui vale la pena spostare l’attenzione. Qui il problema non è se selezionare, né quanto selezionare. Il problema è come il concetto di merito venga interpretato e quale impostazione culturale e amministrativa questa interpretazione rifletta.
Dietro questa architettura non c’è una nuova idea di selezione, né una riflessione sul valore formativo degli esami. C’è una scelta di gestione: ridurre l’incertezza, evitare rimescolamenti, rendere le graduatorie stabili e prevedibili. È una selezione pensata per funzionare bene dal punto di vista amministrativo, non per valutare meglio dal punto di vista accademico.
Il risultato, però, è un ribaltamento silenzioso del senso stesso della selezione universitaria. Il merito non scompare, ma viene riscritto. Non è più legato allo studio, né ai voti, ma alla capacità di non sbagliare mai percorso. Di non fermarsi. Di non rifiutare. Di non deviare.
Per questo il problema non è ideologico, né corporativo, né difensivo. È pubblico. Un sistema di accesso che penalizza sistematicamente il miglioramento, scoraggia il rischio e trasforma una facoltà legittima in una colpa strutturale non è un sistema da aggiustare a margine. È un sistema da riscrivere.
Non per tornare indietro, ma per reintrodurre un principio elementare: che a determinare l’accesso siano gli esiti, non le traiettorie amministrative; i risultati, non la loro cronologia; lo studio, non la conformità.
Finché questo non accadrà, il decreto continuerà a funzionare. Ma continuerà anche a dire, implicitamente, che studiare meglio non serve. E questo, per un’università pubblica, è un messaggio che non ci si può permettere.







