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Perché la tecnologia non sostituirà l’istruzione. Parla Billari (Bocconi)

C'è bisogno di una riforma del sistema educativo e universitario per preparare al meglio i nuovi ricercatori. L'intervista di Maria Scopece a Francesco Billari, rettore dell'Università Bocconi, tratta dall'ultimo numero del quadrimestrale di Start Magazine.

Il tasso di natalità in Italia segue da anni una curva in costante discesa. Nel 2024 i nuovi nati sono stati circa 370 mila, con un calo di 10 mila unità rispetto all’anno precedente e di oltre 200 mila rispetto al 2008, anno che ha segnato il “picco” del nuovo millennio con 576.659 nascite.

Un Paese che invecchia e vede diminuire la propria popolazione giovane deve interrogarsi su come possa affrontare la competizione globale nell’ambito dell’intelligenza artificiale. Si tratta di una sfida non solo tecnologica, ma anche culturale ed educativa, che richiede non soltanto la capacità di utilizzare gli strumenti dell’AI, ma anche di comprenderne limiti e potenzialità.

Come ha sottolineato il rettore della Bocconi, Francesco Billari, “avere molti giovani non basta: bisogna avere molti giovani istruiti”.

In più di un’occasione lei ha parlato di formare studenti future proof, cioè a prova di futuro. In un’Italia in cui la popolazione invecchia e i giovani diminuiscono, come si vince la sfida dell’intelligenza artificiale? Chi la studierà e chi avrà modo di studiarla?

Innanzitutto, dobbiamo dire che bisogna studiare. Uno dei problemi principali del nostro Paese è la bassa quota di laureati: abbiamo la seconda percentuale più bassa dell’Unione Europea. Nel 2024 abbiamo raggiunto il 31,6% di laureati — un record storico — ma restiamo lontani da paesi dell’Europa del Nord che conta circa il 50% della popolazione laureata o della Corea del Sud che arriva al 70%. Dobbiamo quindi far studiare di più i giovani e costruire una scuola e un’università capaci di accompagnarli lungo tutto il percorso. Serve una riforma complessiva del sistema educativo, che guardi al futuro e non solo al passato. È giusto studiare la storia, ma è altrettanto fondamentale insegnare la scienza dei dati, l’informatica, la sociologia e l’economia fin dai primi anni. Il primo passo è migliorare la formazione dei giovani ripensando l’intera filiera educativa, dalla scuola all’università.

In questa riforma della scuola che ruolo possono avere gli studenti che arrivano dall’estero? Consideriamo che il nostro paese affronta un grave problema demografico.

Bisogna essere realistici, gli studi sui movimenti migratori mostrano i migranti qualificati scelgono Paesi dove ci sono già molti laureati. Quindi, il problema che ho illustrato prima — una popolazione con un basso numero di laureati — diventa un ostacolo anche nell’attrarre laureati dall’estero. Tutto il mondo vorrebbe ingegneri o medici già formati, ma questi scelgono luoghi con università di qualità, grandi aziende e stipendi alti. Per questo dobbiamo rafforzare il nostro sistema interno per poter competere. Detto questo, possiamo declinare la questione seguendo due percorsi. Il primo è non sprecare i talenti che abbiamo già. Oggi, più del 20% dei bambini nati in Italia ha almeno un genitore straniero e quasi il 15% è straniero alla nascita. Quindi, dobbiamo creare un sistema inclusivo che permetta di far sbocciare i talenti delle seconde generazioni indipendentemente dall’età o dal momento d’ingresso nel sistema scolastico.

Il secondo aspetto riguarda il sistema universitario. Nel 2024 abbiamo avuto circa 370.000 nati e le università italiane hanno immatricolato circa 350.000 studenti. È chiaro che fra vent’anni sarà indispensabile attrarre studenti internazionali. Per farlo, bisogna potenziare la residenzialità universitaria, investire sull’insegnamento in lingua inglese e, al tempo stesso, offrire percorsi di apprendimento dell’italiano. Il sistema universitario italiano deve dunque svolgere un doppio ruolo: servire il territorio, portando più ragazzi e ragazze all’università, e diventare attrattivo per studenti stranieri. Alcune università italiane, come la Bocconi, mostrano che si può essere attrattivi anche per studenti di Paesi avanzati come Francia e Germania.

È possibile immaginare che in futuro i Paesi con una popolazione più giovane faranno i maggiori passi avanti nello studio e nella ricerca sull’intelligenza artificiale?

Per quanto riguarda la leadership nello sviluppo dell’AI, contano soprattutto i capitali e la concentrazione di risorse, più che la struttura demografica. Tuttavia, i Paesi più giovani sono spesso quelli con maggiore potenziale di innovazione. La storia ci insegna che l’innovazione economica e sociale è arrivata da popolazioni con quote importanti di giovani. Però, per cogliere il cosiddetto dividendo demografico — cioè il vantaggio di avere tanti giovani — serve connettere questo aspetto all’istruzione. Avere molti giovani non è di per sé un vantaggio economico; avere molti giovani istruiti, invece lo è. Paesi che avranno tanti giovani e riusciranno a farli studiare — come succede in India e in Cina — potranno ottenere grandi risultati.

Guardiamo all’altro lato della parabola demografica: l’intelligenza artificiale può aiutare un invecchiamento attivo della popolazione, anche sui luoghi di lavoro?

Sicuramente sì, anche se non abbiamo ancora le applicazioni più efficaci. Una delle potenzialità del nostro Paese è proprio quella di rispondere in modo innovativo all’invecchiamento. Un esempio semplice è quello delle auto a guida autonoma. Penso a mio padre, che ha più di 90 anni e ha smesso di guidare: un’auto autonoma, affidabile anche per chi non ha più i riflessi pronti, sarebbe un esempio concreto di innovazione utile. Ma ci sono tante innovazioni che possiamo portare per creare più attività ad età avanzate. E anche in questo caso c’è il dividendo dell’istruzione. Sappiamo che il declino cognitivo è più lento per chi ha studiato e continua ad esercitare la propria mente. Dobbiamo quindi sviluppare innovazioni basate sull’intelligenza artificiale senza togliere la spinta a esercitare la propria intelligenza umana.

Perché a volte siamo pigri nell’uso dell’intelligenza artificiale, attribuendole capacità — come il pensiero critico — che in realtà non ha? Cosa possono fare università, scuole e centri di ricerca per cambiare questo atteggiamento?

È un dovere delle istituzioni educative promuovere non solo conoscenze e competenze, ma anche capacità sociali, emotive e comportamentali, spingendo gli studenti verso una partecipazione più attiva, fatta di dialogo e dibattito. Dobbiamo dare valore alla presenza fisica, che ha senso solo se si interagisce. Se una lezione è puramente frontale, guardarla su YouTube ha lo stesso valore che seguirla in presenza. Per non diventare dipendenti o vittime dell’intelligenza artificiale, dobbiamo interagire di più tra di noi, di persona Serve valorizzare i luoghi e le relazioni, unendo competenze tecniche e competenze sociali ed emotive, fondamentali per innovare e affrontare il futuro.

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