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L’Europa di fronte alla convergenza strategica e militare tra Russia e Cina

La guerra in Ucraina, il sostegno decisivo di Pechino a Mosca e il dilemma strategico europeo tra riarmo, autonomia e dialogo con la Cina. L’intervento di Carlo Felicioni, ex direttore centrale in Mediocredito e consulente di finanza aziendale per le imprese

 

«Come fa Putin a continuare la sua guerra contro l’Ucraina? La risposta è la Cina». Così possono essere sintetizzate le parole pronunciate ieri dal segretario generale della NATO, Mark Rutte, che segnano un passaggio di grande rilevanza politica. Secondo Rutte, la Cina è oggi la vera linea di vita della Russia: senza il suo sostegno economico, tecnologico e industriale, Mosca non sarebbe in grado di sostenere lo sforzo bellico. Circa l’80% dei componenti elettronici critici impiegati nei droni e in altri sistemi d’arma russi risulta essere di origine cinese. Quando civili muoiono a Kyiv o Kharkiv, dice in sostanza Rutte, la tecnologia che li ha colpiti proviene quasi sempre dalla Cina.

Nello stesso intervento, c’è un secondo avvertimento di Rutte, ancora più inquietante: con un’economia ormai interamente dedicata alla guerra, la Russia potrebbe essere pronta ad attaccare un Paese della NATO entro cinque anni. Nel frattempo, conduce già una campagna occulta contro le società europee: sabotaggi digitali contro infrastrutture civili e altre azioni clandestine.

Queste parole impongono una riflessione che va oltre l’emergenza ucraina. La Cina non è più un attore lontano o ambiguo: è già parte integrante delle dinamiche che minacciano direttamente la sicurezza europea. Ed è proprio per questo che l’Europa deve porsi una domanda scomoda, ma inevitabile: è ancora possibile – e in quali condizioni – recuperare un rapporto con la Cina non solo di cooperazione economica, ma anche di natura strategica? Oppure la stagione di una potenziale cooperazione strategica è definitivamente chiusa?

LA PROPOSTA CINESE DELLA BELT AND ROAD INITIATIVE E L’EUROPA CHE NON SEPPE DECIDERE

Per comprendere il dilemma strategico attuale, occorre tornare indietro di almeno un decennio. Quando nel 2013 Pechino lanciò la Belt and Road Initiative, l’Europa si trovò di fronte a una proposta inedita: una cooperazione euroasiatica su vasta scala, fondata – almeno sul piano dichiarato – su principi come il “win-win”, il rispetto dei sistemi politici, la non interferenza negli affari interni, lo sviluppo come fattore di sicurezza e la connettività al posto delle alleanze.

La BRI non proponeva un’unione politica né una convergenza ideologica. L’Eurasia veniva concepita come uno spazio funzionale di interconnessione, e l’Europa come il suo naturale terminale occidentale. In questo senso, la proposta cinese appariva formalmente rispettosa della sovranità europea.

La risposta dell’Europa, tuttavia, fu frammentata. Alcuni Stati membri aderirono con convinzione, altri con prudenza, altri ancora si opposero. Le istituzioni europee non riuscirono a elaborare una strategia comune. Il risultato fu un’apertura disordinata, gestita su base nazionale, che lasciò l’Unione priva di una posizione negoziale forte.

In questa fase, un elemento giocò un ruolo cruciale: la garanzia di sicurezza offerta dagli Stati Uniti. Finché l’ombrello americano appariva solido e affidabile, l’Europa poteva permettersi di guardare con sospetto alla Cina, allineandosi progressivamente alle preoccupazioni di Washington. Non a caso, durante l’amministrazione Biden, la Belt and Road venne sempre più letta come una sfida da contenere, e l’Unione cominciò a parlare della Cina come “rivale sistemico” (definizione formalizzata per la prima volta nel Consiglio europeo del 21–22 marzo 2019).

Questa postura europea verso la Cina si fondava su un presupposto implicito: che il legame transatlantico fosse un dato strutturale, non negoziabile.

Il ritorno di Donald Trump ha incrinato radicalmente questa certezza. Le sue posizioni hanno reso evidente che il sostegno americano all’Europa non è più incondizionato né scontato. Ma il punto non è Trump in sé. La questione più profonda è se il suo atteggiamento rappresenti un’eccezione o piuttosto il sintomo di una trasformazione strutturale della politica americana, sempre più concentrata su priorità interne e sempre meno disposta a sostenere costi globali.

È in questo contesto che cambia anche il significato della NATO. Trump ha introdotto nell’Alleanza Atlantica un contenuto nuovo, esplicitamente negoziale: se vuoi essere difeso dagli Stati Uniti, devi dimostrare di saper difendere te stesso. L’aumento massiccio delle spese militari non è più una raccomandazione, ma una condizione.

Questa impostazione trasforma la NATO da comunità di sicurezza a meccanismo contrattuale. La deterrenza non è più un bene condiviso, ma una prestazione condizionata. E questo ha un effetto geopolitico rilevante: un’Europa che si riarma senza una propria dottrina strategica è destinata ad aumentare la conflittualità con la Russia e, in prospettiva, anche con la Cina.

IL RAPPORTO TRA RUSSIA E CINA

Il rapporto tra Russia e Cina si è sviluppato in modo progressivo nel corso degli ultimi due decenni. Nel 2001, con la firma del Trattato di buon vicinato e cooperazione amichevole, poi rinnovato fino al 2027, i due Paesi avviarono una relazione fondata su consultazioni politiche e cooperazione pragmatica. Tali relazioni, ben lungi dal configurare una vera e propria alleanza strategica, hanno per anni coesistito con relazioni strutturate della Russia sia con la NATO sia con l’Unione europea.

Un passaggio significativo si è avuto il 4 febbraio 2022, quando Mosca e Pechino, pochi giorni prima dell’invasione dell’Ucraina, hanno sottoscritto una dichiarazione di “amicizia senza limiti”, che ha rafforzato il coordinamento politico e la convergenza di posizioni sull’ordine internazionale. Negli anni successivi, il rapporto si è ulteriormente consolidato attraverso accordi economici ed energetici e, più recentemente, con forme di coordinamento militare operativo ed esercitazioni congiunte, che testimoniano un livello di cooperazione più avanzato anche in ambito di sicurezza.

QUALE RAPPORTO DELL’EUROPA CON LA CINA DOPO IL CONSOLIDAMENTO DELL’ALLEANZA SINO-RUSSA

Il consolidamento dell’alleanza tra Cina e Russia non significa certo che la Cina sia diventata un nemico dell’Europa. Come, del resto, la definizione europea della Cina come “rivale sistemico” non ha mai implicato la fine della cooperazione economica, cooperazione che coinvolge la Cina e tutti i Paesi dell’Unione europea.

Il nuovo contesto geopolitico comporta tuttavia la necessità di riconsiderare in modo sostanziale le condizioni strategiche in cui tale cooperazione economica tra UE e Cina possa proseguire e svilupparsi, alla luce delle nuove vulnerabilità emerse e dell’uso geopolitico delle interdipendenze.

Resta però un punto cruciale: se tale revisione strategica sia concretamente praticabile nelle condizioni attuali e se, alla luce delle scelte compiute da Pechino nel contesto internazionale, la Cina possa ancora essere considerata un interlocutore disponibile a un confronto negoziale strutturato con l’Europa.

Da qui il nodo centrale del dibattito: non se l’Europa voglia o meno “tornare” alla Belt and Road, ma se possa permettersi di escludere a priori un dialogo strategico tra potenze con la Cina, tanto più dopo aver già avviato i processi necessari per creare una capacità di difesa autonoma europea.

Del resto,  l’Europa ha già sperimentato nei primi anni 2000 un  simile dialogo con la stessa  Russia di Putin. Con Romano Prodi alla Presidenza della Commissione,  i rapporti tra Unione europea e Russia conobbero una fase di rafforzamento senza precedenti.  Nel Vertice UE–Russia di San Pietroburgo (maggio 2003) fu formalizzato il Partenariato UE–Russia, articolato nei quattro spazi comuni – economico; libertà, sicurezza e giustizia; sicurezza esterna; ricerca, istruzione e cultura – concepiti come architettura di lungo periodo della cooperazione.

Sul piano della sicurezza euro-atlantica, questo approccio trovò il suo punto più avanzato nel 2002, con la creazione del NATO–Russia Council al Summit di Pratica di Mare, promosso dal governo italiano, che sancì il massimo livello di integrazione istituzionale tra Mosca e l’Occidente in materia di sicurezza.

Quella strategia, fondata sull’idea che l’inclusione negoziata e la cooperazione regolata potessero stabilizzare i rapporti con la Russia, fallì negli anni successivi, quando le scelte politiche e strategiche di Vladimir Putin ne rovesciarono progressivamente i presupposti. La riaffermazione di una politica di potenza e il ricorso all’uso della forza segnarono la fine di quel tentativo di integrazione, aprendo una fase di crescente contrapposizione con l’Unione europea e con l’Occidente nel suo complesso.

RIARMO E PARADOSSO EUROPEO

L’idea che più armi significhino automaticamente più sicurezza è fuorviante. Un riarmo europeo accelerato, inserito in una logica di contenimento permanente, viene inevitabilmente percepito da Mosca e, di conseguenza, da Pechino come una minaccia diretta. Il rischio è quello di una spirale: più deterrenza produce più contro-deterenza e, quindi, più instabilità.

Da qui emerge un’alternativa strategica radicale, raramente discussa apertamente ma sempre meno teorica. In forma schematica, l’alternativa potrebbe essere la seguente: l’Europa investe seriamente nella propria difesa, ma non come semplice complemento degli Stati Uniti; valorizza il nucleare francese come deterrente europeo; costruisce, in un orizzonte temporale da definire, una reale autonomia strategica e di difesa. Su questo presupposto, può tentare di negoziare con Russia e Cina accordi di non belligeranza, intesi come presupposto per un ampliamento degli spazi di cooperazione economica regolata.

Non si tratterebbe di appeasement, né di rinuncia ai valori europei, ma di un tentativo di stabilizzare lo spazio eurasiatico attraverso un equilibrio tra deterrenza autonoma e de-escalation strategica.

CONCLUSIONE

Le parole di Mark Rutte segnano un momento di verità. La Cina è già parte delle dinamiche che minacciano la sicurezza europea. Ma proprio per questo l’Europa non può limitarsi a una postura esclusivamente difensiva o morale.

Il vero errore del passato non è stato diffidare della Belt and Road, ma non aver saputo governare politicamente quella proposta. Oggi, in un mondo più duro e con un’America meno prevedibile, l’Europa deve scegliere se restare spettatrice o diventare finalmente un attore strategico. Non solo cercando di difendersi in un contesto di crescente minaccia russa o russo-cinese, ma anche recuperando nei confronti della Cina una postura negoziale autonoma e credibile.

Una postura capace di porre Pechino di fronte a una proposta europea esplicita di nuovo ordine internazionale, fondato su sicurezza, cooperazione regolata e responsabilità condivise. Perché rinunciare al confronto strategico non riduce i rischi: li lascia semplicemente nelle mani altrui.

Non vi è alcuna illusione che una simile strategia sia semplice da attuare o che l’Europa possa, da sola, indurre Pechino a modificare rapidamente il proprio atteggiamento nei confronti della Russia e a stabilire una più organica alleanza con l’Europa. Tuttavia, rinunciare in partenza a un’iniziativa politica europea autonoma significherebbe accettare una posizione di subalternità strategica, limitandosi a reagire a scelte altrui. Nell’attuale contesto di instabilità, non esente da rischi di escalation e di polarizzazione sistemica, la difficoltà del confronto non può essere un alibi per evitarlo: è piuttosto la ragione per cui esso diventa necessario.

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