La domanda che domina il dibattito pubblico, politico ed economico è semplice e diretta: l’intelligenza artificiale aumenta davvero la produttività?
La narrazione degli ultimi due anni suggerisce di sì. Assistenti digitali che scrivono codice, agenti intelligenti che analizzano dati, automazioni sempre più sofisticate: tutto lascia pensare che stiamo vivendo una nuova rivoluzione industriale.
Eppure, quando si passa dalla retorica ai numeri reali, la risposta è molto meno entusiasmante. Il rapporto “State of AI in Business 2025”, elaborato dal team di ricerca Mit Nanda (Networked Agents and Decentralized AI), ormai citato ovunque, ha mostrato che il 95 percento dei progetti aziendali basati su AI non porta alcun risultato economico misurabile. È un dato che contrasta con l’immaginario dell’AI onnipotente e che ci obbliga a guardare oltre l’entusiasmo. La produttività, oggi, non sta crescendo grazie all’AI. E la ragione non è nella tecnologia in sé, ma in una serie di verità scomode che riguardano noi, le aziende e perfino i giganti che la AI la sviluppano.
La prima riguarda il divario enorme tra la velocità della tecnologia e la lentezza dell’organizzazione. L’AI corre, le imprese no. Molte aziende adottano strumenti di intelligenza artificiale aspettandosi un impatto immediato, ma li innestano sopra processi vecchi, dati disordinati e infrastrutture inadatte. È come montare un motore da Formula 1 su una vecchia Panda: non funziona. L’unico settore dove l’AI sta già producendo risultati tangibili è lo sviluppo software, dove i coding assistant hanno effettivamente ridotto i tempi di lavoro dal 30 al 50 percento. Ma lo sviluppo software è un mondo digitale puro, senza vincoli fisici, processi legacy o normative da rispettare. Nel resto dell’economia, l’AI rimane un potenziale non ancora sfruttato.
La seconda verità scomoda riguarda i limiti dei grandi modelli generativi. Sono straordinari nella creazione di testo, nella generazione di immagini e nell’elaborazione del linguaggio naturale, ma parlano poco la lingua dell’economia reale. Non sono addestrati sui processi industriali, sulle procedure cliniche, sui cicli amministrativi, sui protocolli logistici. Daron Acemoglu, premio Nobel per l’Economia nel 2024, lo ha detto con grande chiarezza: così com’è, l’AI generativa serve ancora pochissimo ai settori che producono la maggior parte del PIL. Gli infermieri, i tecnici di manutenzione, gli impiegati amministrativi, gli operatori di magazzino, gli insegnanti: sono loro il cuore dell’economia. E per loro servono modelli diversi, verticali, addestrati sui dati dell’azienda e integrati nei processi veri. L’AI generalista è un ottimo tuttofare, ma la produttività nasce dagli specialisti.
La terza verità è la più travisata: tagliare personale non aumenta la produttività. Anzi, la riduce nel medio periodo. Eppure l’AI è già diventata la giustificazione perfetta per licenziamenti rapidi, soprattutto negli Stati Uniti. Ma la storia economica insegna che la tecnologia fa crescere la produttività solo quando aumenta le capacità delle persone, non quando le sostituisce. Erik Brynjolfsson (direttore del Mit Center for Digital Business) e Acemoglu, pur da posizioni opposte, concordano su questo punto fondamentale. Se l’AI viene usata solo per ridurre i costi, allora il risultato non è sviluppo: è contrazione. La vera produttività arriva quando il lavoro umano viene potenziato, non eliminato.
Poi c’è la quarta verità scomoda, forse la più significativa e meno discussa: l’AI evolve a una velocità tale che perfino i big player non riescono a starle dietro. Microsoft, Google, Meta e OpenAI continuano a rilasciare funzionalità, agenti, modelli e strumenti con un ritmo che non consente stabilità. Il caso Microsoft è emblematico. Negli ultimi mesi ha presentato strumenti per sviluppare agenti personalizzati da integrare in Microsoft 365, poi ha modificato l’architettura, rimosso alcune funzionalità a settembre, reintrodotte a novembre, cambiato criteri di licensing e ridisegnato la governance dei dati. Il nome “Copilot” è rimasto, ma tutto ciò che gira intorno alla creazione di agenti intelligenti è in continua riconfigurazione.
Questo crea un clima di incertezza per le imprese che dovrebbero investire. Come si costruisce una roadmap di adozione quando le funzionalità cambiano ogni trimestre? Come si standardizzano i processi se non è chiaro quali strumenti saranno disponibili fra sei mesi? La produttività richiede stabilità, non sorprese continue. Ma la corsa frenetica dell’AI, per ora, produce soprattutto instabilità.
E allora, tornando alla domanda iniziale “l’AI aumenta davvero la produttività?”. La risposta oggi è negativa non perché l’AI non possa farlo, ma perché non abbiamo ancora costruito le condizioni perché accada. Senza infrastrutture di dati solide, senza modelli verticali addestrati sull’economia reale, senza processi ripensati alla radice e senza una maggiore stabilità dell’offerta tecnologica, l’AI non è una leva di trasformazione: è un gadget evoluto.
Ma tutto questo può cambiare. E in fretta. Se smettiamo di inseguire l’AI come un giocattolo e iniziamo a trattarla come un fattore produttivo, se la integriamo nei processi veri anziché usarla per rifare una presentazione, se la usiamo per aumentare le persone invece di sostituirle, allora la curva della produttività potrebbe tendere decisamente verso l’alto.
Non sarà una rivoluzione da social network, ma da fabbriche, uffici, ospedali, supply chain. È lì che si gioca la vera partita. Ed è lì che scopriremo quanto l’AI sarà davvero la nuova rivoluzione industriale.




