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È in arrivo una crisi del rame?

La domanda di rame - scrive il Financial Times in un nuovo report - esplode per la transizione verde, il boom dei data center IA e il riarmo, mentre l’offerta invecchia e resta concentrata in Cina: i risultati sono deficit strutturale, prezzi record e corsa affannosa a nuove miniere.

Un approfondimento del Financial Times ci pone di fronte ad una realtà sempre più evidente: il rame è il metallo del nostro tempo. Transizione energetica, intelligenza artificiale e riarmo globale stanno facendo schizzare la domanda di rame, mentre l’offerta resta intrappolata in miniere sempre più vecchie, scoperte rare e una raffinazione dominata dalla Cina.

I risultati sono un deficit che bussa già alla porta nel 2025, prezzi ai massimi storici e una corsa affannosa – soprattutto in Occidente – per rimettere in moto la produzione domestica.

Domanda in crescita

La richiesta di rame, osserva il quotidiano della City, non è mai cresciuta così velocemente. Le reti elettriche di tutto il mondo vengono rinnovate e potenziate per accogliere le rinnovabili e l’elettrificazione dei consumi; ogni chilometro di linea ad alta tensione e ogni stazione di ricarica per veicoli elettrici ne consuma quantità enormi.

Ma il vero salto, sottolinea il Ft, arriva dai data center dell’intelligenza artificiale: secondo i dati di Grupo México citati dal giornale servono tra 27 e 33 tonnellate di rame per megawatt installato, più del doppio rispetto ai data center tradizionali. BHP calcola che entro il 2050 il consumo mondiale di rame legato ai data center sarà sei volte quello attuale.

A questi fattori si aggiunge il riarmo globale: la spesa militare, rileva ancora il Ft, è cresciuta del 9,4% nel 2024 raggiungendo 2,7 trilioni di dollari, e gran parte della domanda di rame per missili, radar, navi e aerei resta volutamente non dichiarata.

La Cina assorbirà da sola il 58% del consumo globale nel 2025; finora l’espansione record della sua rete elettrica è stata il principale acceleratore, ma India, Sud-Est asiatico e Medio Oriente stanno prendendo il testimone con piani infrastrutturali altrettanto ambiziosi.

Deficit in arrivo

L’Agenzia Internazionale dell’Energia lo afferma in modo categorico: entro il 2035, sottolinea l’Agenzia citata dal Ft, le miniere oggi operative o già in costruzione copriranno appena il 70% della domanda prevista.

Wood Mackenzie vede già un deficit di 304.000 tonnellate di rame raffinato nel 2025, destinato ad allargarsi sensibilmente nel 2026.

Il mercato ha reagito di conseguenza: il Ft ricorda come sul London Metal Exchange il prezzo abbia superato gli 11.000 dollari a tonnellata, contro gli 8.500 di due anni fa.

I colossi dell’IA – Google, Microsoft, Amazon, Meta – sono praticamente insensibili al prezzo e stanno vincendo le aste per trasformatori, cavi e barre di rame contro le stesse utility nazionali, creando ulteriori tensioni sulla catena di approvvigionamento.

Miniere esauste

Le grandi miniere stanno invecchiando rapidamente. La qualità del minerale scende anno dopo anno, i costi di estrazione salgono, gli incidenti si moltiplicano. Solo venti impianti giganti producono oggi un terzo del rame mondiale, concentrando rischi che un tempo erano distribuiti su centinaia di siti.

Nel 2024, ricorda ancora il Ft, gravi fermi hanno colpito tre delle miniere più importanti; giganti come Codelco, Glencore e Antofagasta hanno tagliato le stime di produzione. Le nuove scoperte sono quasi sparite: negli ultimi dieci anni sono stati individuati solo 14 grandi giacimenti, contro i 239 del trentennio 1990-2020.

“Le cose facili sono finite”, riassume Kathleen Quirk, CEO di Freeport-McMoRan.

Cina padrona

Come rileva il Ft, Pechino estrae direttamente da sola il 9% del rame mondiale, che passa al 20% contando le partecipazioni estere, ma controlla circa il 50% della capacità globale di fusione e raffinazione. Gli Stati Uniti hanno soltanto due fonderie operative.

La sovracapacità cinese ha ribaltato il mercato: fino a pochi anni fa i minatori pagavano le fonderie per trattare il concentrato; oggi sono le fonderie cinesi a pagare i minatori per avere materia prima.

Costruire nuove raffinerie in Occidente resta un miraggio nel breve-medio termine: costano miliardi, consumano enormi quantitativi di energia e lavorano con margini risicati.

Resolution, il caso Usa

Sotto l’Arizona giace uno dei più grandi depositi di rame ancora intatti: 1,8 miliardi di tonnellate di risorsa.

Il progetto Resolution, di BHP e Rio Tinto, è stato inserito dall’amministrazione Trump nella lista dei minerali critici e gode di un raro consenso bipartisan. Eppure incontra la strenua opposizione di parte della tribù San Carlos Apache, per cui il sito di Oak Flat è terra sacra e verrebbe distrutto dal cedimento del suolo.

Dopo il via libera della Corte Suprema a maggio, un tribunale d’appello ha bloccato nuovamente lo scambio di terreni necessario per iniziare i lavori, prolungando un iter già ventennale.

Freni alle nuove miniere

Aprire una grande miniera oggi significa affrontare 10-15 anni di permessi, miliardi di dollari di investimento, conflitti con le comunità locali e rischi ambientali sempre più alti – siccità in Cile e Perù, consumo d’acqua, impatto su aree protette.

Gli investitori sono cauti: il capitale preferisce buyback o dividendi piuttosto che progetti a lunghissimo termine. La pipeline di progetti concreti e finanziati è drammaticamente corta; il mondo conta su quantità record di rame provenienti da miniere ancora teoriche o prive di fondi definitivi.

Reazioni del settore

Le grandi compagnie rispondono con mega-fusioni (la proposta da 50 miliardi tra Anglo American e Teck è l’operazione dell’anno), riapertura di vecchie miniere, estrazione di rame da sterili e scarti che dieci anni fa non sarebbero stati economici, spinta sul riciclo e su nuove tecnologie.

Le tariffe USA hanno intanto provocato un afflusso anomalo di metallo raffinato, creando scorte americane superiori al consumo annuale dell’India.

Prezzi alti per sempre

Tutti gli analisti richiamati dal Ft – da Wood Mackenzie a StoneX, da CRU a Benchmark – convergono sullo stesso punto: intorno al 2030 il mercato entrerà in un deficit strutturale da cui sarà quasi impossibile uscire.

I prezzi resteranno sostenuti per anni, forse decenni. A vincere saranno i Paesi che controllano produzione, raffinazione o scorte strategiche, e tra questi la Cina occuperà un posto di rilievo.

Il rame ha definitivamente spodestato l’oro: è il nuovo metallo prezioso dell’era digitale.

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