Come ogni fine anno, insieme al tempo dei bilanci personali arriva anche la classifica delle province italiane dove “si vive meglio”. Per il 2025 il podio del Sole 24 Ore è: Trento, Bolzano, Udine, subito dopo Bologna, poi Bergamo, Treviso, Padova, Milano, Parma e Modena. In fondo alla lista, come ormai da copione, una lunga fila di province del Sud, con Napoli al 104° posto e Reggio Calabria ultima.
Puntuale, si accende il dibattito: “Ma io a Napoli ci vivo benissimo”, “Nel mio paese non saremo primi in classifica, ma si sta meglio che a Milano”,“Che cosa se ne fanno del punteggio se poi non c’è il mare?”.
Queste reazioni sono interessanti perché riguardano lo scarto tra le misurazioni di popolazione e quelle individuali, tema centrale per le scienze sociali come per quelle biomediche.
Qui però mi interessa un altro punto: questa classifica è un bell’esempio di come i valori (gli ideali) entrano dentro la misurazione scientifica del mondo.
COSA STIAMO DAVVERO MISURANDO?
L’indagine del Sole 24 Ore usa 90 indicatori, organizzati in sei grandi capitoli: ricchezza e consumi, affari e lavoro, ambiente e servizi, demografia–società–salute, giustizia e sicurezza, cultura e tempo libero.
Dentro ci troviamo di tutto: tempi di chiusura dei processi, tasso di occupazione, occupazione femminile, imprenditoria femminile, reddito pro capite, offerta culturale, qualità dei servizi sanitari, criminalità e così via.
Ora, scegliere questi indicatori – e non altri – non è un’operazione neutra: è una una presa di posizione su che cosa abbia valore nella “qualità della vita”.
Se considero importante l’occupazione femminile, dico che una buona società è quella in cui le donne lavorano.
Se considero importante il numero di imprese guidate da donne, dico che una buona società è quella in cui le donne stanno anche in cima alle gerarchie.
Se metto tra gli indicatori la dotazione di asili nido, dico che una buona città è quella che permette di conciliare lavoro e figli. Ogni indicatore, insomma, è un piccolo tassello di un’idea di mondo.
SE LO CHIEDI ALL’ECONOMIST O A MERCER
La cosa si vede ancora meglio se usciamo per un attimo dall’Italia. L’Economist Intelligence Unit, per esempio, pubblica ogni anno il Global Liveability Index: 173 città nel mondo valutate su oltre 30 indicatori, raggruppati in cinque categorie: stabilità, sanità, cultura e ambiente, istruzione, infrastrutture.
Qui la città ideale è quella stabile, sicura, con buoni ospedali, scuole funzionanti, trasporti che reggono, un’offerta culturale varia. È una qualità della vita abbastanza “da manuale di economia urbana”.
La società di consulenza Mercer, invece, fa ogni anno il suo Quality of Living Ranking, pensato per le multinazionali che devono decidere quanto pagare di indennità ai manager espatriati e anche per i manager che devono decidere se espatriare.
L’indice si basa su 39 fattori raccolti in 10 categorie, che vanno dall’ambiente politico e sociale all’ambiente economico, dalla sanità alle scuole, dai trasporti pubblici alla casa, fino all’ambiente naturale.
Qui la “buona città” è quella dove un expat trova ospedali affidabili, scuole internazionali per i figli, voli comodi, servizi pubblici prevedibili. Non è esattamente la stessa idea di qualità della vita che guida il Sole 24 Ore, ed è ancora un’altra cosa rispetto alla “felicità” misurata da Gallup: la classifica dei Paesi più felici esce ogni anno in estate e la Finlandia è un campione assoluto.
Più o meno in tutte queste classifiche c’è lo stesso slogan – dove si vive meglio – ma ci sono mondi ideali diversi dietro, potremmo dire.
COSTRUTTI CHE NON DESCRIVONO SOLTANTO: PROPONGONO
Concetti come qualità della vita, ma anche salute, benessere e felicità, non sono solo descrittivi (“qual è il tasso di occupazione di questa provincia?” “qual è il livello di trigliceridi nel sangue di questa persona?”), sono inevitabilmente anche normativi (“come dovrebbe essere una provincia, città, nazione, persona?”).
Quando diciamo “in quella città la qualità della vita è alta” non stiamo solo constatando una serie di fatti, stiamo anche più o meno consapevolmente, approvando un certo modello: un certo tipo di occupazione, un certo assetto dei servizi, un certo modo di distribuire risorse e opportunità.
Forse anche per questo queste classifiche fanno arrabbiare: se non si limitano a dire come stanno le cose, ma dicono anche implicitamente come dovrebbero stare, chi non si riconosce in quell’ideale, protesta.
NON È UN BUG: È UN EFFETTO DELLA COMPLESSITÀ
Si potrebbe pensare: “Appunto, allora questa roba non è scientifica, è tutta ideologia”. Non è così semplice.
È vero che la scelta degli indicatori è guidata da valori pratici, politici, a tratti etici. Ma questo non significa che l’indagine non sia oggettiva nel suo metodo.
Al contrario: l’obiettivo esplicito è tradurre un concetto sfuggente e ambiguo, come qualità della vita, in una serie di grandezze intersoggettive che si possono misurare, confrontare, aggiornare anno dopo anno. L’alternativa non è studiare una qualità della vita “pura” e neutrale, imposta dai fatti, ma un dibattito totalmente impressionistico: “Si vive bene dove lo dico io, perché mi piace”.
Qui invece si fa qualcosa di diverso: si decide che cosa consideriamo importante in una vita buona (scelta di valore); si cercano i migliori dati disponibili che rappresentino, per approssimazione, quelle dimensioni (scelta tecnica); si combinano tra loro quegli indicatori con una procedura esplicita e replicabile (scelta metodologica).
Il fatto che il primo passaggio sia carico di valori non inquina automaticamente il secondo e il terzo. Semplicemente, ci ricorda che misurare certi fenomeni complessi implica passare da una discussione politica e filosofica. Non la può evitare.
IL CONFRONTO CON IL METEO
Prendiamo un altro fenomeno complesso che richiede molti indicatori: il tempo atmosferico.
Per dire che “oggi il tempo è brutto” usiamo temperatura, pressione, umidità, pioggia, vento. Anche qui c’è una scelta di indicatori con le loro variabili, ma sono scelte descrittive: ci dicono che cosa succede nell’atmosfera.
Con la qualità della vita la storia è diversa. Dire che una città è più “vivibile” perché i processi in tribunale durano meno, o perché ci sono più librerie, o perché gli incidenti stradali sono diminuiti significa prendere posizione su che cosa sia una buona vita in comune.
È questo che rende i costrutti come qualità della vita, benessere e felicità più difficili da gestire: la dimensione valutativa è incorporata nella definizione stessa. Non si aggiunge dopo, nei commenti; è già nel modo in cui costruiamo il costrutto.
“A NAPOLI C’È IL SOLE”: CAMBIARE GLI INDICATORI
Torniamo all’obiezione classica: “Ma a Napoli, nonostante sia in coda, si vive bene: c’è il sole, il mare, la socialità…”. Questa potrebbe essere non solo la difesa affettuosa della propria città, ma la proposta di un’altra lista di indicatori: clima mite, spazi pubblici vissuti, densità di relazioni sociali, benessere soggettivo (emozioni positive e negative), eccetera.
Se dessimo un peso molto maggiore al clima e al costo della vita, e molto minore agli stipendi medi e alla durata dei procedimenti civili, la classifica della qualità della vita cambierebbe. Alcune città del Sud salirebbero, alcune città del Nord scenderebbero.
Non perché qualcuno ha “barato”, ma perché stiamo cercando di misurare, un ideale diverso, con strumenti quindi diversi.
OGGETTIVITÀ NON VUOL DIRE NEUTRALITÀ
E allora, che cosa ce ne facciamo di queste classifiche? Se non sono né la verità, né una pura operazione di propaganda, come le leggiamo?
Forse possiamo prenderle per quello che sono: strumenti oggettivi nel metodo (i costrutti e gli indicatori, una volta scelti, sono misurati e combinati con regole chiare); ma che si appoggiano su scelte di valore inevitabili ogni volta che parliamo di vita buona, salute, benessere.
Oggettività, qui, non significa assenza di valori, ma valori resi espliciti, discutibili, contestabili. Se non ci sta bene che la qualità della vita sia misurata così, la risposta non è dire “la scienza sbaglia” in blocco. È entrare nella discussione dove conta: quali indicatori includere?, quali pesare di più? Quali aspetti della vita collettiva oggi trascuriamo?
CHE COSA CI DICE DAVVERO QUESTA CLASSIFICA
Tornando alla classifica 2025 delle province italiane per qualità della vita. Questa ci conferma una frattura geografica che conosciamo da decenni: le prime posizioni affollate da province del Nord, le ultime occupate quasi tutte dal Mezzogiorno.
Questa immagine non è neutra: ci ricorda quanto contino il lavoro stabile, i servizi, le infrastrutture; ignora (per scelta, non per complotto) altre dimensioni che magari per qualcuno sono decisive: la bellezza di un paesaggio, i legami familiari, la possibilità di vivere con poco.
Ma soprattutto ci mostra che, quando parliamo di “qualità della vita”, stiamo adottando, più o meno consapevolmente, una specifica prospettiva su che cosa dovrebbe essere una vita decente nel 2025 in Italia. E questo, prima ancora che un esercizio statistico, è un problema profondamente filosofico.
La filosofa della scienza Anna Alexandrova, ha scritto un bel libro su questo nel 2017 (A philosophy for the science of Well-being, Oxford University Press), mentre io ho studiato i concetti di salute, benessere e qualità della vita in medicina.
Il suggerimento finale non è cercare quello “vero”, ma è diventare consumatori consapevoli di concetti, scale e misurazioni riconoscendo le politiche o i mondi ideali che ci sono dietro.
(Estratto da Appunti di Stefano Feltri)






