Alla fine di una settimana condizionata dal caso Garofani, viene molto facile inanellare quanto accaduto lungo un filo che potremmo definire così: tutti parliamo troppo, dovremmo farlo meno e qualcuno dovrebbe proprio tacere. La questione più rilevante degli ultimi giorni si può riassumere come Marco Travaglio, osservatore sicuramente non a favore del centrodestra ma neppure prono ai diktat dell’opposizione (che stavolta non ha cavalcato la polemica più di tanto, capendo quanto fosse insidiosa).
Sul Fatto, Travaglio riporta la cosa in questi termini: l’inopportunità del comportamento del consigliere quirinalizio è smaccata, sconcertante è stata la reazione del Colle, che ha cercato di derubricare il bubbone a “ridicolo”, incoerenti i media che avrebbero snobbato lo scoop loro offerto, salvo poi seguirlo in scia ai pezzi della Verità. Quest’ultimo paradosso si appaia a quello delle dimissioni del segretario generale del Garante Privacy, Angelo Fanizza: ad andarsene, anziché il vertice dell’autorità attaccata da Report (con accuse inconsistenti, abbiamo già sostenuto), è colui che indagava per scoprire la talpa che ha passato le notizie al programma di Ranucci. Con l’ulteriore paradosso di un’indagine irrispettosa della riservatezza condotta nell’organismo che deve tutelarla.
Il filo è netto: se nei Palazzi che contano – Quirinale in primis, Authority e tutti gli altri – le persone fossero discrete e tenessero la bocca chiusa, ci eviteremmo tante altre chiacchiere dannose per la sfiducia che generano a livello civico. Parlare meno, quindi, e non parlare tutti, perché chi riveste ruoli di tale delicatezza e rilevanza deve controllarsi, fosse pure a una riunione conviviale tra tifosi. Anzi, il grand commis deve tanto più tacere davanti a un bicchiere di vino e presunti amici: se proprio deve, esprima la propria opinione – ostacolare Meloni, Schlein inadeguata… – nel segreto di un conclave politico-istituzionale. Apparire imparziali, oltre che esserlo, come suol dirsi per i magistrati.
Con lo stesso filo si inanellano proprio riforma e referendum sulla giustizia e altre notizie e vicende: i test di Medicina anticipati sul web, i giovani criminali milanesi intercettati mentre si augurano la morte della loro vittima, la falla apertasi nelle chat di Whatsapp, il caso Epstein negli Usa e la nuova norma sul consenso “libero e attuale” nei rapporti sessuali (approvata all’unanimità parlamentare ma già criticatissima in punta di diritto)… Non esiste più conversazione davvero riservata e invece – anche in conseguenza dell’epocale combinato disposto tra pandemia, lockdown, remotizzazione e nuovi media – tendiamo sempre più a sproloquiare, disabituandoci a parlare guardando negli occhi l’interlocutore, facendo attenzione al suo riscontro.
Abbiamo esasperato oltre misura il diritto di parola, di espressione della nostra opinione, che non a caso nella Costituzione sta all’articolo 21: molto dopo quello al lavoro, per esempio. E allora, perché consideriamo “normale” la disoccupazione ma pretendiamo la possibilità di chiacchierare come intangibile? Forse non ci rendiamo conto che il diritto alla chat è la pezza con cui copriamo una democrazia liberale profondamente in crisi.