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Perché il terrorismo di Hamas non è resistenza

Riportare il terrorismo palestinese, oggi declinato in chiave islamista, al concetto di “Resistenza”, apre la via al riconoscimento di due principi, che pongono in dubbio valori fondanti del pensiero sorto dopo la Seconda mondiale. L'intervento di Giordana Terracina

Leggere e interpretare l’eccidio del 7 ottobre 2023, da parte dei vari movimenti politici e sociali che hanno manifestato in questo arco di tempo, come “atto di resistenza palestinese”, non è forse un riproporre la validità del principio di realtà, nel suo significato di massimizzazione del potere?

Uccidere, stuprare, torturare, bruciare non sono forse atti che integrano la fattispecie di crimine internazionale?

Ancora, il principio di autodeterminazione può includere in sé il concetto di crimine come specchio del principio di realtà?

Riportare il terrorismo palestinese, oggi declinato in chiave islamista, al concetto di “Resistenza”, apre la via al riconoscimento di due principi, che pongono in dubbio valori fondanti del pensiero sorto dopo la Seconda mondiale. Il primo ripensa la questione palestinese all’interno della nozione di guerra, dove i soggetti del conflitto sono da una parte lo Stato di Israele e dall’altra lo Stato di Palestina. Se si accettasse quest’idea, allora, dovrebbero valere i principi della Carta delle Nazioni Unite, che vietano l’uso della forza se non per legittima difesa o per espressa autorizzazione del Consiglio di Sicurezza. Se il 7 ottobre è stato un atto di guerra e riconosciamo lo Stato palestinese come Stato a tutti gli effetti governato da Hamas, allora dobbiamo arrenderci al riconoscimento del compimento di un crimine internazionale, compiuto in violazione dei principi del diritto umanitario e dei valori etici, che, invece, dovrebbero essere alla base del vivere quotidiano, soprattutto in ambito internazionale. Accettare il contrario vuol dire enfatizzare una logica di massimizzazione del potere, dove regnano solo i rapporti di forza.

Il secondo porterebbe alla cancellazione del ruolo della Shoah come limite al principio di realtà e base delle Costituzioni europee, sorte dopo la Seconda guerra mondiale. Diretta conseguenza di questa lettura è il rovesciamento di valori, portato avanti da una propaganda che ridisegna i confini del sionismo e del termine genocidio. Se si banalizza ciò che è stato e ha rappresentato la Shoah, se si discute il suo essere un “unicum”, inteso nei termini di persecuzione e annientamento, vuol dire sdoganare la messa in discussione dei principi fondanti della Carta delle Nazioni Unite e delle Convenzioni internazionali che si sono succedute negli anni e che hanno trovato il loro scopo nella costruzione di un diritto internazionale, basato sul principio di umanità.

Ma non solo.

Condividere una ricostruzione del terrorismo come resistenza, apre la via anche all’accettazione dell’impunibilità per gli atti commessi, divenendo attuale nel momento in cui si ritiene prioritaria la conclusione di una tregua. Concepire una forza politica al governo della Striscia di Gaza e della Cisgiordania, come ad esempio l’Anp (Autorità nazionale palestinese) guidata da Abbas, vuol dire anteporre i negoziati alla rassicurazione per le vittime del perseguimento dei crimini. E il fatto che sia l’Anp e sia Hamas, abbiano raggiunto il loro potere mediante elezioni, non può fare scordare le modalità con cui queste si sono tenute e lo spargimento di sangue che n’è scaturito.

Seguendo una tale ricostruzione, si apre l’annosa questione della necessità o meno di legittimare organizzazioni terroristiche come soggetti di diritto in grado di negoziare a livello internazionale. Una domanda che ha accompagnato la questione palestinese sin dal suo sorgere e che ha avuto in Arafat il suo massimo esponente. Riflettendo proprio sul passato, sul fatto di aver concepito i palestinesi come resistenti e di aver permesso ai loro leader di avere un riconoscimento ufficiale internazionale, emerge chiaramente come tutti questi fattori non abbiano contributo alla costruzione di una pace durevole e non abbiano ancora portato davvero alla risoluzione della questione e alla nascita di uno Stato palestinese, in grado di vivere in pace con gli Stati confinanti e fuori dall’influenza degli altri Stati arabi.

Piuttosto abbiamo, invece, assistito a un ridimensionamento delle aspettative palestinesi e a un nuovo spostamento della questione nelle mani degli Stati arabi, come è stato per gli Accordi di Abramo e come sarà con il progetto allo studio per la ricostruzione della Striscia di Gaza e la Cisgiordania, con conseguente indebolimento alla leadership locali.

Forse più che urlare vuoti slogan nelle piazze o rimettersi a giudizi condizionati dalla propaganda, bisognerebbe tornare ad abbracciare i principi dell’etica e chiedere il definitivo allontanamento dalle negoziazioni di qualsiasi soggetto, sia esso riconosciuto o no a livello internazionale, che abbia rincorso un principio di realtà, con tutto ciò che ha comportato. Non si può accettare l’idea di costruire una società basata sull’arbitrio e sulla brutalità, quando, invece, il perseguimento del diritto umanitario internazionale potrebbe guidare le negoziazioni e magari la parola “Resistenza” tornerebbe ad avere il suo vero posto nella storia.

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