Il faccia a faccia numero quattro di venerdì scorso tra il presidente più aggredito del mondo, l’ucraino Volodymyr Zelensky, e quello più potente che risponde al nome dello statunitense Donald Trump, s’è concluso come gli altri: senza una svolta per la guerra in Ucraina.
E sì che Zelensky s’era presentato in abiti borghesi, avendo capito che l’abbigliamento sportivo-militare sempre indossato a sostegno del suo popolo in trincea avrebbe irritato il cerchio magico della Casa Bianca.
Zelensky ha inoltre riempito di elogi l’uomo che ha imposto la pace ai recalcitranti governo d’Israele e Hamas: perché non sognare che lui possa costringere a una tregua l’irriducibile Vladimir Putin?
Infine, e dopo un teso colloquio, il presidente ucraino ha fatto buon viso a cattivo gioco: non importa se gli Stati Uniti non consegneranno i missili Tomahawk a Kiev, cioè l’obiettivo del viaggio a Washington.
“Sono realista, la Russia ha paura di quell’arma molto potente, ma ha ragione Trump, dobbiamo fermarci e parlare”, ha masticato amaro Zelensky. Dimostrando un po’ di cinismo diplomatico per non urtare l’egolatria di Trump, l’unica personalità del pianeta oggi in grado di fermare la guerra allo stato attuale “per poi discutere di tutto il resto”, come chiedono Zelensky e tutti i governi occidentali a suo sostegno. E intanto gli europei preparano un loro piano di pace sul modello-Gaza.
Deluso, quindi, l’ucraino, perché il presidente statunitense aveva lasciato intendere, proprio per indurre Putin a trattare, che sui Tomahawk a Kiev “non aveva ancora preso una decisione”. Invece niente missili a lunga gettata “per evitare escalation”. Di nuovo Trump è rimasto folgorato da una precedente, lunga telefonata con lo Zar.
Ma il cessate il fuoco e l’apertura di un negoziato da tutti invocati, è ciò che Putin rifiuta. Potrà cambiare posizione nell’annunciato vertice con Trump a Budapest previsto a giorni?
O si ripeterà la presa in giro al presidente americano già vista in Alaska, nonostante il penoso tappeto rosso steso ai piedi del russo?
Non è l’unico rebus. Per volare in Ungheria dal presidente e suo amico Viktor Orbán, lo Zar dovrà inventarsi una rotta particolare, evitando gli spazi aerei dei Paesi europei a lui ostili e il rischio di arresto per crimini di guerra, come da due anni richiede la Corte Penale Internazionale.
E poi, oltre alla “beffa di Alaska” e allo sberleffo di Orbán -l’Ungheria fa pur sempre parte dell’Ue-, i precedenti non depongono bene sul summit a Budapest. Dove nel 1994 si firmò l’omonimo memorandum con cui l’Ucraina rinunciava alle sue bombe atomiche in cambio del rispetto della sua sovranità da parte di Mosca.
Ma nel 2014 Putin si prendeva la Crimea e nel 2022 invadeva l’intera e indipendente nazione, stracciando l’accordo firmato da Russia, Ucraina, Stati Uniti e Gran Bretagna.
Se per lo Zar gli accordi scritti e sottoscritti sono solo un pezzo di carta, non sarà semplice fidarsi della sua parola. Sempre che a Budapest Putin intenda darla per l’unica cosa che conta: fermare il conflitto.
(Pubblicato su L’Arena di Verona, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova)
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