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reato femminicidio

Come uccidere la barbarie dei femminicidi

Rispetto, dignità, parità, mai violenza: l’abc in una comunità libera e matura. Il taccuino di Guiglia

Il brutale assassinio di Pamela Genini, che per la cruda e crudele statistica è il sessantesimo femminicidio dell’anno, pone nuovi e angoscianti interrogativi. Non solo sulla ferocia contro la modella e imprenditrice di 29 anni uccisa con 24 coltellate, volto compreso, da parte dell’uomo di 52 anni con cui stava, e che lei voleva lasciare.

Ma, per favore, un po’ di pietà almeno per le parole: basta definire “ex fidanzati” queste belve, che non meritano le attenuanti del racconto -a quelle ed eventuali penali ci penserà il processo-, come se il delitto fosse frutto di un amore finito male, frainteso, tradito.

La parola amore dev’essere bandita per quei banditi che approfittano della comprensione, della bontà, della speranza di poter ancora redimere l’uomo a cui la donna aveva voluto bene. E che la sta invece ammazzando senza tanti perché. Senza neppure ascoltare la sua ultima supplica in ginocchio, quel “ti prego” ripetuto cinque volte dalla povera ragazza, come ha contato e riferito l’allibito testimone della porta accanto.

La morte di Pamela impone un’ulteriore riflessione rispetto alle molte che cittadini, inquirenti e legislatori fanno dopo ogni delitto. Perché forse per la prima volta in maniera così spudorata il femminicidio è avvenuto mentre i poliziotti stavano sfondando la porta d’ingresso dell’appartamento, cioè con la consapevolezza dell’omicida che non l’avrebbe fatta franca e che sarebbe stato arrestato con le mani ancora sporche di sangue.

Eppure, ha ucciso lo stesso: neanche la presenza e le voci dei poliziotti a pochi metri di distanza da lui, separati solo da una maledetta porta, l’hanno intimorito o scoraggiato.

Toccherà ai giudici capire come sia stato possibile che l’assassino se ne sia infischiato persino delle forze di polizia. Allertate subito da un “ex fidanzato” di Pamela, e lui sì che merita la romantica qualifica.

E allora: se la bestiale vicenda consumata la sera di martedì scorso su un balconcino di Milano è avvenuta alla faccia della strabordante informazione, prevenzione, legislazione e coscienza generale sul femminicidio, due cose ne conseguono.

La prima suona banale ripeterla: è nell’istruzione fin da piccoli -famiglia e scuola, poi lavoro e società- che cresce l’antico insegnamento che una donna “non si tocca neanche con un fiore”. Rispetto, dignità, parità, mai violenza: l’abc in una comunità libera e matura.

La seconda: il femminicida all’ergastolo. Ma ergastolo vero, non quello vigente e offensivo con assassini a spasso dopo pochi anni di carcere.

Già vediamo il ditino puntato dai garantisti della domenica e le citazioni sul principio della presunzione d’innocenza.

Ma la presunzione d’innocenza finisce con la colpevolezza accertata con sentenza definitiva. Qui si parla di un delitto specifico -il femminicidio- che dev’essere regolato dal Parlamento per ciò che è: un atto di barbarie.

Se il mostro sapesse che l’aspettano le sbarre per il resto della vita, forse si fermerebbe in tempo. Almeno quando la polizia picchia alla porta e la donna implora un sussulto di umanità.

(Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova)

www.federicoguiglia.com

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