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Vi svelo dati e confronti farlocchi sui salari

Che cosa si dice e che cosa non si dice sui salari in Italia. L'approfondimento di Liturri

Quando il Presidente della Repubblica interviene sui diversi temi della vita economica e sociale del Paese è sempre un momento di grande importanza. Egli rappresenta l’unità nazionale e le sue parole dovrebbe costituire un momento di identificazione e di riflessione per tutte le parti politiche.

Figuriamoci quando interviene, come accaduto venerdì quando il Capo dello Stato ha assegnato ai Maestri del lavoro le Stelle al merito per il 2025. Diversi i passaggi significativi:

«Il lavoro oggi procede a velocità diverse. Si creano diaframmi tra categorie, tra generazioni, tra lavoratori e lavoratrici, tra italiani e stranieri, tra territori, tra chi fa uso di tecnologie avanzate e chi non è in condizioni di farlo».

I troppi «contratti pirata» e il «dumping contrattuale», fenomeni che restringono diritti e tutele e che Mattarella, presente la ministra Marina Calderone, definisce «preoccupanti». Le tante famiglie sospinte «sotto la soglia di povertà», nonostante uno dei componenti lavori. E questo «mentre super manager godono di remunerazioni centinaia, o persino migliaia di volte superiori a quelle di dipendenti delle imprese».

Tutto molto centrato, ma non d’attualità oggi, più di quanto fosse già d’attualità da almeno 40 anni. Perché descrive fenomeni pluridecennali e che hanno portato il nostro Paese a non recuperare ancora il livello di salari reali di fine 2019. Inoltre, una denuncia che arriva oggi, quando faticosamente da almeno tre anni, è in corso un recupero del potere d’acquisto e del livello dei salari reali dai minimi del 2022.

Allora è spontaneo chiedersi: Perché proprio ora? Stessa domanda che è sorta sabato scorso dopo la lettura dell’articolo di Federico Fubini sul Corriere della Sera (“La crescita e i salari più leggeri”). Ovviamente non abbiamo la presunzione di ipotizzare alcuna risposta, che solo i diretti interessati conoscono.

Noi qui ci limitiamo a riportare dei fatti e dei dati che testimoniano, “per tabulas”, che le cose non stanno proprio come vengono raccontate in quell’articolo e le parole (benvenute ovviamente) del Presidente difettano di tempestività.

Nel senso che è tutto vero, ma mancano dei dettagli essenziali che cambiano radicalmente la prospettiva e le conclusioni.

Al Presidente ha replicato in modo secco la Premier Giorgia Meloni con “i salari hanno ripreso a crescere più dell’inflazione”.

Noi qui ci concentriamo sul ragionamento di Fubini, per capire bene cosa stia accadendo di recente ai salari e cosa sia accaduto in passato.

Sorvoliamo sull’ardito paragone (quasi blasfemo, a detta dello stesso autore) tra gli italiani, vittime dell’economia del Paese e i cittadini di Gaza, vittime della guerra. Accomunati, perché gli italiani si sono identificati con quelle vittime, a cui “nessuno si interessa, ignorate da tutti e schiacciate in un gioco di cui solo loro pagano il prezzo”.

Il punto è che Fubini denuncia correttamente il calo dei salari reali (cioè i salari nominali al netto dell’inflazione) e il calo della quota salari (cioè la quota dei salari sul Pil, in contrapposizione alla quota dei profitti). Ma tutto dipende dalla scelta dei momenti di osservazione di questi dati.

Perché per gli italiani il momento per mobilitarsi “a livello Gaza” avrebbe dovuto essere negli ultimi mesi del governo di Mario Draghi, quando il morso dell’inflazione cumulata a partire dal dicembre 2019 è arrivato quasi all’11%. Dal settembre 2022 ad oggi, l’inflazione cumulata è invece pari solo al 4%. Con l’essenziale differenza che in quei tre anni i salari nominali non hanno tenuto il passo dell’inflazione e si sono quindi ridotti in termini reali, e nei successivi tre anni è accaduto esattamente il contrario, con una decisa rimonta dei salari reali e del potere d’acquisto.

Quindi è vero che i salari reali sono ancora inferiori rispetto al periodo pre Covid (1,5% per la precisione) ma è doveroso aggiungere che il punto di minimo è ormai lontano nel tempo (oltre tre anni fa) e che da allora la forbice si sta rapidamente chiudendo, anche grazie alle scelte del governo Meloni sul cuneo fiscale e sugli sgravi fiscali a favore delle fasce di reddito medio-basse.

Scegliersi un punto di osservazione (pre Covid o 2021) rispetto ad oggi e trarre conclusioni senza raccontare cosa è accaduto nel frattempo, non rende un grande servizio alla comprensione del problema. Perché la dinamica e la visione prospettica sono fondamentali.

A questo proposito, rileviamo sommessamente che i salari reali hanno smesso di crescere in Italia dall’inizio degli anni ’90 e che l’intero decennio pre pandemia, a partire dal governo di Mario Monti, è stato caratterizzato da una significativa discesa di quei salari. Quello sarebbe stato il momento opportuno per scendere in piazza a difesa dell’erosione del potere d’acquisto, non oggi, quando quello stesso potere è in recupero da circa 3 anni.

Stessa cosa a proposito della quota salari. Infatti, quando i salari reali crescono meno del prodotto del Paese – esattamente l’altro fenomeno che denuncia Fubini – la quota salari diminuisce a scapito della quota profitti. In altre parole, in un Paese che produce più beni, per il salariato è ben magra consolazione sapere che il suo potere d’acquisto è inalterato, perché partecipa alla distribuzione del prodotto in misura men che proporzionale. Ma, ancora una volta, questo è vero dall’inizio degli anni ’80. Perché dirlo solo oggi? Allo stesso modo, è altrettanto vero che quella quota salari sta risalendo da poco più di tre anni, dopo aver toccato un minimo relativo proprio durante il governo Draghi. Ma noi di quel periodo ricordiamo solo la mano di Draghi poggiata sulle spalle di Maurizio Landini.

Per chi volesse dilettarsi con i dettagli, l’onorevole Alberto Bagnai, non da oggi (ovviamente), è prodigo di dati e commenti sul suo blog.

Allora pare che la soluzione sia quella di convincere i capitalisti cattivi e avidi a concedere aumenti salariali ai propri dipendenti. Ma, anche qui, non si menziona che proprio le auspicate concentrazioni nel settore finanziario creano posizioni dominanti che ingrassano i profitti. E poi manca un tassello fondamentale: non essendoci più l’ammortizzatore di breve periodo costituito dalla svalutazione del cambio, si finge di non sapere che la compressione dei salari è prima di tutto un elemento costitutivo e “primo motore immobile” della competitività nell’eurozona e poi anche delle diverse ondate della globalizzazione. E su una feroce compressione salariale si è basato il recupero di competitività dell’Italia a partire dal 2012.

Se torturi i dati abbastanza, alla fine confesseranno quello che vuoi. È una citazione di incerta attribuzione, ma certamente vera.

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