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Fenomenologia del manifestante impolitico

L'intervento di Francesco Gandolfi.

Il fenomeno del manifestante impolitico è in rapida diffusione, quasi un’epidemia. Non si tratta invero di autentica disaffezione politica, bensì di abdicazione elettorale: questo spiega in primo luogo la netta divergenza di partecipazione tra manifestazioni pubbliche e elezioni politiche, icasticamente riassunta dalla nota espressione: “piazze piene, urne vuote”.

‘Eleggere’ significa ‘scegliere’; la scelta implica responsabilità. Max Weber afferma che nel giorno delle elezioni il cittadino si trasforma in politico di occasione, certo da distinguere dalla figura del politico di professione, ma pur sempre convertito pro tempore in una dimensione politica. Dunque, è a questo ruolo che si rinuncia quando si diserta la votazione: si rifiuta di farsi carico dell’ufficio costituzionale di gestione collettiva degli affari pubblici. Come l’infante protesta vigorosamente contro il piatto sgradito, pur essendo incapace di prepararne uno alternativo più palatabile, così si comporta il manifestante di piazza. Egli urla, inveisce, scalpita, grida contro l’impotenza. Di chi? La sua. Solamente in questo modo si razionalizza l’apparente incoerenza di chi pretende da altri ciò che scrupolosamente omette di esigere da se stesso. Solamente da questo angolo visuale si può cercare di sciogliere il paradosso sociale del manifestante non votante. L’impoliticità deriva dalla maledizione di passività intellettuale che abita l’uomo della piazza, il quale è impossibilitato ad argomentare, a ragionare, a ponderare le parole.

Contro questa condizione di subalternità cognitiva, che gli impedisce di partecipare attivamente alla politica, egli scaglia i propri anatemi. Il dimostrante contesta in primo luogo la carenza o assenza di strumentalità ermeneutica che lo condanna, e impreca contro di essa. Tale protasi permette altresì di cogliere un altro elemento distintivo del corteista: il nominalismo reale. Il protestatario è impermeabilmente convinto che il linguaggio sia in grado, ex se, di tradursi in realtà. La voce, in questa prospettiva, si fa cosa, si dota di oggettualità; la produzione di parole diviene creazione automatica del fatto che esse descrivono.

È un abbaglio morale tipico della fase adolescenziale, in cui predomina un ottimismo intellettualistico acritico. L’attivista che opta per la passività elettorale non riesce a liberarsi da questo stato di minorità, così da completare il passaggio alla fase adulta dell’esistenza. La permanenza in questo stadio transitorio conduce spesso ad una regressione: in presenza di determinate condizioni al contorno il sempiterno attivista-adolescente ritorna infante. E difatti egli urla, non parla; schiamazza, non dialoga; vocifera, non esprime. Il contestatore di piazza, che respinge in modo indefesso qualsiasi posizione nella politica professionale, indirizza tali strepiti lamentosi verso la figura del parlamentare il quale, per definizione, è massimo artefice dell’oratoria, della discussione, del dibattito. Giunti a questo punto, il significato antropologico della protesta dovrebbe risultare evidente: il politico di professione è colpevole di disvelare l’inganno inconfessabile, il quale scorre carsico sotto ogni manifestazione di piazza, che la realtà sia a nostra totale disposizione. Tuttavia, non potendo ammettere questo limite invalicabile del discorso, non volendo rinunciare all’immagine di se stessi come individui vocepotenti, si imputa al politico di professione ogni nefandezza, inadeguatezza, fiacchezza, inettitudine e codardia.

Purtroppo, non si accetta l’idea che il nominalismo reale sia solo un’illusione rassicurante, un comodo autoinganno, una verità addomesticata funzionale alla costruzione del proprio personale alibi interiore. Così, mentre si nega strenuamente l’esistenza di questo efficace palliativo mentale, si può continuare ad evitare il crudo rapporto con la realtà, astenendosi dall’affrontare tanto le contraddizioni che la agitano quanto le coscienze che la interpretano. Il placebo nominalistico ha sortito però ancora una volta l’effetto sperato; sebbene il realismo non smetta mai di ricordare all’essere umano che i mali mondani non si curano con dispute sui nomi, per quanto sbraitate esse siano. La più grave forma di indifferenza, nonché la più ignobile, è l’opportunismo adattativo. Essa genera frequentemente la tirannia della maggioranza, qualche volta degenera in totalitarismo.

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