C’è tempo fino al 3 ottobre per dire la propria sul futuro European Innovation Act. La Commissione europea ha infatti aperto una consultazione pubblica per raccogliere idee, critiche e suggerimenti su come rendere l’Europa un continente davvero competitivo nell’innovazione. Non si tratta di un esercizio di stile: il questionario tocca i punti più concreti della vita di una startup, di un’università che fa ricerca o di un investitore che vuole rischiare sul nuovo.
Le domande della Commissione sono semplici nella forma ma decisive nei contenuti. Come ridurre gli ostacoli burocratici che ancora dividono i 27 mercati nazionali? Come aumentare la disponibilità di capitali per le imprese innovative, in un continente dove i venture capital sono una frazione di quelli americani o asiatici? Come trattenere e attrarre i talenti, evitando la fuga di cervelli che continua a impoverire le nostre università e aziende? E, soprattutto, come far sì che anche il settore pubblico diventi un motore di innovazione, con appalti aperti alle startup e sperimentazioni regolatorie a livello europeo?
L’idea di fondo è chiara: costruire un mercato unico dell’innovazione. Proprio come il mercato unico dei beni e dei servizi ha fatto la forza dell’Europa negli anni Novanta, oggi serve un quadro che permetta a una startup di scalare da Milano a Berlino senza dover affrontare barriere fiscali, legali o amministrative.
Alcuni attori si sono già mossi: reti universitarie, associazioni di trasferimento tecnologico, network regionali. Ma restano molte voci in silenzio. Quelle delle startup più giovani, che spesso non hanno tempo né risorse per partecipare a processi di policy. Quelle della società civile, che dovrebbe dire la sua sugli impatti etici e sociali delle nuove tecnologie. Quelle delle pubbliche amministrazioni locali, che ogni giorno si trovano ad affrontare il difficile compito di introdurre innovazione nei servizi ai cittadini.
E poi c’è l’Italia. Finora non si vede un fronte compatto di università, associazioni, regioni e imprese pronto a portare la propria esperienza a Bruxelles. Un silenzio che pesa: perché se non saremo noi a scrivere le regole, saranno altri a farlo al nostro posto.
Il futuro European Innovation Act non è una formula astratta. Può diventare lo strumento che aiuta un ricercatore a trasformare un brevetto in impresa, una startup a raccogliere capitali fuori dai confini nazionali, una PMI a entrare in un mercato estero senza ostacoli. Ma perché questo accada, bisogna che l’Italia colga l’occasione.
Il tempo stringe: il 3 ottobre è dietro l’angolo. Questa volta l’Europa ascolta. Tocca a noi parlare.