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Il “no!” degli Imi, le leggi razziali e alcune inquietanti analogie

Mattarella celebrerà la prima Giornata dedicata agli Internati italiani, da ricordare visto quello che accade negli atenei di Pisa e Torino. Il corsivo di Battista Falconi.

Oggi il Presidente Sergio Mattarella celebrerà al Quirinale la prima Giornata dedicata agli Internati italiani, istituita grazie a una legge recentemente approvata all’unanimità dal Parlamento e animata dal vicepresidente della Camera, Giorgio Mulè. Le celebrazioni proseguiranno nel pomeriggio con l’inaugurazione di una mostra al Ministero degli Esteri e domani, con la deposizione di una corona all’Altare della Patria. Il 23, si terrà alla Casa dell’aviatore di Roma un incontro di studio.

Tra gli Internati italiani, in particolare, si ricordano i circa 650 mila IMI, i soldati e ufficiali che rifiutarono di combattere con i tedeschi da cui erano stati catturati, in una modalità e misura che appaiono incredibili. Era del resto l’Italia dell’8 settembre 1943, quella dell’armistizio di Badoglio e del “Tutti a casa”, il film con Alberto Sordi che, nella tragicomica telefonata con il comandante per richiedere ordini chiari, ben descrive il caos nel quale il Paese precipitò. In quel caos, però, centinaia di migliaia di uomini trovarono il coraggio di opporsi, di rifiutare la via più comoda e, per quasi due anni, patirono un lager tanto duro che circa 50 mila di loro ci morirono.

La vicenda è stata già ricordata nei giorni scorsi presso la sede romana dell’ANRP, l’Associazione più impegnata nel conservare la storia e la memoria degli Internati militari italiani, cui è stato dedicato anche il bel Museo “Vite di IMI”, assieme agli studenti del Master dedicato proprio allo studio della memoria della Shoah e di altri orrori bellici dall’Università di Roma Tor Vergata. Viene da confrontare la semplicità e la non piena consapevolezza che portò quei militari a dire “No!”, prima ai nazisti e poi alla RSI, con l’atteggiamento assunto da parte del mondo accademico. Tanti qualificati docenti universitari, all’emanazione delle infami leggi razziali che tra l’altro privarono gli ebrei italiani delle loro cattedre, offrirono al regime fascista il loro complice silenzio: per viltà, quieto vivere, spesso per approfittare dei posti che si liberarono.

È una storia che merita di essere ricordata, oggi che in ambito universitario si ripetono gesti e parole meno gravi ma altrettanto ambigui. La storia non si ripete mai ma offre talvolta analogie inquietanti. Per esempio a Pisa, dove si è consumato un aggressivo blitz dei Pro Pal contro un docente accusato di essere “sionista”: Rino Casella è finito in ospedale perché, spiega, aveva chiesto all’ateneo di rimanere “neutrale” sulla guerra in Medio Oriente. Il contesto è quello di un’università già finita nel mirino per avere sospeso le collaborazioni con alcuni atenei israeliani.

Oppure al Politecnico di Torino, dove è stato sospeso dall’insegnamento un docente a causa, lo spiega il rettore stesso, di “esternazioni relative all’esercito israeliano che, per quanto risulta dai frammenti video diffusi sui social, appaiono inappropriate … oltre ad essere in contrasto con i principi più volte espressi dal Politecnico di Torino, che condanna ogni forma di violenza, ripudia la guerra ed esprime profondo sdegno per il continuo massacro della popolazione civile a Gaza. Queste esternazioni rischiano, in un momento così delicato, di alzare il livello di tensione … ostacolando l’impegno dell’Ateneo nel promuovere un dialogo costruttivo volto a unire e non dividere”.

Ci limitiamo a poche, brevi osservazioni. I social sono assunti come prova sufficiente a emettere una condanna. I principi del Polito, tra cui la condanna di Gaza, prevalgono su quelli costituzionali della libertà di manifestazione del pensiero e della libertà di scienza e insegnamento, articoli 21 e 33 della Carta. E questo atto di imperio anticostituzionale, di autentica censura, viene contrabbandato come invito al dialogo. Purtroppo, tocca citare il generale Vannacci e dire che è il “mondo al contrario”. Non ci si meravigli, poi, se la considerazione degli intellettuali cala e se i populisti raccolgono facile consenso.

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