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Il bilancio Ue letto da eurosognatori e realisti

Che cosa dice e che cosa non dice il Sole 24 ore sul bilancio Ue. Il corsivo di Liturri

Come accade quasi ogni domenica, anche oggi il professor Sergio Fabbrini dalle colonne del Sole 24 Ore, ci offre una ghiotta occasione per capire le (inconsistenti) ragioni degli euro-sognatori.

Quelli per i quali gli Stati nazionali – tra cui quattro delle prime quindici economie del pianeta – dovrebbero sciogliersi per aderire alle magnifiche sorti e progressive di un grande Stato europeo, privo di una Costituzione, con meccanismi decisionali farraginosi, legittimazione democratica spesso evanescente e, ultimo ma non meno importante, privo di un significativo potere impositivo.

Questa volta Fabbrini è rimasto deluso dalla proposta per il prossimo quadro finanziario pluriennale 2028-2034 presentata da Ursula von der Leyen mercoledì scorso.

Una proposta che “continua ad avere caratteristiche ordinarie […] non ha il coraggio di alzare il bilancio al 2% del Reddito Nazionale Lordo […] e proporre il ricorso al debito europeo”. Dal lato delle entrate, restano centrali i trasferimenti nazionali e languono le risorse proprie. Con molti governi nazionali che si oppongono sia all’aumento delle prime che delle seconde.

Allora “la UE è in una morsa”. E qual è la pozione magica indicata da Fabbrini, poiché “c’è la Cinaaa!” e “l’Ammeriga” con le quali dobbiamo competere a suon di centinaia di miliardi di investimenti nel digitale e la guerra che incombe?

Siccome ha deciso già da solo, unilateralmente consultandosi con sé stesso, che tale sforzo «non può essere sostenuto da risorse nazionali frammentate e asimmetriche», grande è la delusione di Fabbrini nel vedere che la Ue, tramite il bilancio, non è in grado “di promuovere un interesse europeo, ma è prigioniera dei confliggenti interessi nazionali ed elettorali”.

Allora a Fabbrini vorremmo sinteticamente e sommessamente ricordare alcuni fatti, che fanno a pugni con i suoi sogni (infranti):

  • È dimostrato, per tabulas, che non esiste un interesse europeo. Esistono variegati interessi nazionali che, da ben prima della nascita della Ue, trovavano già composizione in organismi internazionali come la Cee. I capi di Stato e di governo europei si confrontano costantemente da almeno 50 anni, proprio per trovare una loro pacifica composizione. Il Regno Unito, uscito dalla Ue, ha mantenuto ed anzi rinsaldato il suo ruolo di protagonista di tali processi negoziali. Non è affondato nell’Atlantico. Come è anche solo pensabile di sommare in un unico coacervo di spesa deciso centralmente interessi così diversi e spesso confliggenti? Non è stata sufficiente la lezione del negoziato sui dazi con gli Usa, con il Commissario Sefcovic impegnato nel rompicapo di rappresentare da solo 27 diversi interessi commerciali? Qualcuno ha visto negli ultimi 30 anni che il divario tra Ue, Usa e Cina si è per caso ridotto, grazie al presunto potere negoziale del mega Stato europeo? Insomma siamo ancora e sempre alle prese col mito del pennello grande, quando servirebbe un grande pennello.
  • Il principio “no taxation without representation” è uno dei valori cardini delle moderne democrazie. Quale potere impositivo può rivendicare la UE, se il suo assetto istituzionale è un ibrido unico al mondo e l’Europarlamento è poco più che tappezzeria il quale può cacciare la Commissione solo con maggioranze bulgare? Se un assetto compiutamente federale è ripetutamente respinto da grandi Paesi come Francia e Germania, che intendono legittimamente continuare a recitare un ruolo da co-protagonisti in uno scenario mondiale, che senso ha insistere chiedendo ciò che gli altri non vogliono?
  • È così difficile prendere atto che ci sono problemi che possono trovare la loro adeguata soluzione a livelli diversi, e più bassi e decentrati, rispetto a Bruxelles, pur in presenza di un minimo coordinamento tra Stati membri?

La Ue sta oggettivamente debordando dalle sue competenze e i (magri) risultati sono sotto gli occhi di tutti. Tranne che di Fabbrini.

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