Sono trascorsi poco più di cinque anni dalla scomparsa di Ezio Bosso, musicista, direttore d’orchestra, studioso di storia della musica e dei suoi grandi protagonisti, uomo ricco di sensibilità straordinaria, mai ostentato nel porsi al grande pubblico ma davvero talentuoso e carismatico. Non credo sia necessario rispettare pedissequamente le date di nascita e di morte per evocare la memoria di personaggi come lui, ciò avrebbe il significato di un rituale postumo, di un necrologio ripetuto. Ezio era una persona amata e ammirata, la sua grandezza va oltre gli anniversari, resta nel cuore di chi lo ha conosciuto e gli ha voluto bene. Una vita breve, segnata dalla malattia, ma così densa da diventare un archivio indelebile di genialità e originalità.
Ci ha fatto amare la musica come mistero e voce dell’immensità, come modo sublime di comunicarci la sua gioia di vivere e la tua straordinaria ricchezza interiore. “Ciao” era una delle sue parole preferite, ogni suo concerto cominciava con un “ciao”.
La musica era per lui come il respiro: un linguaggio universale, un modo di esprimersi e di uscire dagli spazi angusti dei formalismi e delle frasi fatte, sempre sorprendente, sapeva improvvisare e stupire ad ogni esibizione, che fosse lui a suonare o dirigere oppure che penetrasse il fascino che immedesima ogni grande autore con il suo spartito e con l’unicità della propria opera musicale. Esprimeva un’armonia di sentimenti irripetibile, intima, vissuta, il suo amore smisurato per l’uomo e la vita, il significato più personale e intimo della musica che era un modo di comunicare con il mondo e di penetrare con una immedesimazione sorprendente i grandi musicisti del passato fino a comprendere dettagli e misteri delle loro partiture, impenetrabili ai più.
Conoscere la loro vita gli permetteva di farli rivivere nell’esecuzione delle loro composizioni. Nel periodo della sua malattia avevo apprezzato il suo rispetto per la sofferenza umana, lui stesso aveva dichiarato che quando tutto sarebbe finito la prima cosa che avrebbe fatto sarebbe stata di mettersi al sole, la seconda di abbracciare un albero.
Sono certo che dove ora si trova lo possa fare, senza i limiti della nostra condizione umana. Consapevole del significato esistenziale del dolore e della malattia aveva avuto lo straordinario coraggio di trasformarli in una opportunità: «Sono un uomo con una disabilità evidente in mezzo a tanti uomini con disabilità che non si vedono».
In un mondo spesso distratto o indifferente la sua raffinata sensibilità gli permetteva di esprimere stati d’animo e sentimenti nobilissimi: purtroppo non tutti sono capaci di convivere con la dignità dell’animo che apre alla umana comprensione. Quando lo ascoltavo – i primi anni al pianoforte, lui figlio di Beethoven era nato pianista – poi direttore d’orchestra sapeva commuovere per la sua immedesimazione nella lettura dello spartito.
Ricordo una delle sue ultime comparse in televisione: aveva preso per mano Ciaikovski e l’aveva accompagnato al cospetto di chi lo ascoltava, con un trasporto emotivo e una delicatezza che avevano suscitato una profonda, coinvolgente commozione. Tanto amava la musica quanto rispettava il valore del silenzio: di tutte le domande che avevo preparato e che resteranno senza risposta, paradossalmente gli avrei chiesto di spiegarmi quale valore attribuiva al silenzio: in una intervista aveva detto una cosa meravigliosa che capita raramente di sentir dire in un mondo fagocitato da una quantità incommensurabile di parole chiassose e soverchianti: «Oggi tutti parlano e nessuno sta a sentire. Bisogna fare silenzio per poter ascoltare”. Ricordo che Alda Merini mi aveva espresso lo stesso concetto: leggerlo detto da Ezio mi confermava questa precisa intuizione: che le persone “grandi” sono anche persone semplici, che sanno ascoltare e poi che musica e arte, poesia e letteratura nascono proprio dal silenzio e dalla riflessione.
A pensarci bene è dal silenzio pensato come un valore che nasce la musica come sapienza e armonia. Volteggiando la sua bacchetta magica di direttore d’orchestra sapeva trasportarci nel sublime della sua immedesimazione. Gli serviva per mascherare il dolore ma anche per dare il meglio di sé: era come se fosse davanti ad un antico manoscritto che andava decifrato per coglierne il senso più profondo e permettergli di esprimere la sua incomparabile capacità di lettura e interpretazione.
A distanza di cinque anni rimane il ricordo palpitante delle sue esecuzioni insieme alla incerta intuizione di aver compreso fino in fondo il suo messaggio ricco di umanità: ascoltare la voce della vita, dare spazio ai sentimenti, cercare l’incontro e la comprensione degli altri.
Quella bacchetta magica che lo “trasformava” l’ha portato lontano, lasciandoci un grande dono: quello di sperare che le difficoltà della vita e le nostre stesse contraddizioni si possano un giorno ricomporre in una desiderata armonia.