I primi 1000 giorni trascorsi da Giorgia Meloni a Palazzo Chigi hanno contenuto non so quante ore o giornate in aereo pe le sue numerose missioni all’estero, ma anche all’interno del paese, essendo il volo il più rapido modo di spostarsi. Ma Meloni stessa ha raccontato di avere vissuto in volo metaforico ciascuno dei suoi giorni da premier buttandosi col paracadute sulla realtà. E mai fallendo un lancio, per fortuna sua e sfortuna degli avversari. Che credo abbiano anche smesso di sperare in un incidente, nella consapevolezza di non essere pronti all’alternativa pur orgogliosamente propostasi nel campo a grandezza variabile, secondo i giorni, le ore, i minuti e gli umori degli sconfitti nelle elezioni politiche di quasi tre anni fa.
Conte, il Giuseppe dell’anagrafe di Volturara Appula, non quello al plurale promosso dal primo Trump alla Casa Bianca, quando l’allora presidente del Consiglio italiano rimaneva a Palazzo Chigi cambiando disinvoltamente maggioranza, cioè sostituendo la Lega di Matteo Salvini col Pd di Nicola Zingaretti, e ancora di Matteo Renzi al Nazareno e dintorni; Conte, dicevo, ha opposto all’immaginazione ottimistica e compiaciuta della Meloni quella di una catastrofe. In particolare, egli ha contrapposto al paracadute sempre sicuro della premier – apertosi puntualmente per farla rialzare a terra, salire il giorno dopo sull’aereo e ripetere il lancio – alla condizione dei poveri e affamati d’Italia. Che senza di lui a Palazzo Chigi, che li riforniva di redditi di cittadinanza e simili, non hanno uno straccio di paracadute cui appendersi sognando di volare. O lanciandosi nel vuoto da qualche dirupo.
È apocalitticamente immaginario, come si vede, il presunto migliore ex presidente del Consiglio d’Italia dopo la buonanima di Camillo Benso di Cavour, secondo la certificazione di Marco Travaglio che lo rimpiange quotidianamente da 1500 giorni, quanti ne sono passati all’incirca dall’arrivo di Mario Draghi a Palazzo Chigi, il 13 febbraio 2021. E non si dà pace della dabbenaggine dell’allora e ancora oggi presidente della Repubblica Sergio Mattarella, quanto meno caduto nella trappola dei sostenitori dell’ex presidente della Banca Centrale Europea, se non promotore lui stesso di quel colpo di Stato attuato gestendo una crisi di governo che non a caso Conte aveva inutilmente cercato di ritardare, una volta persi per strada pezzi della sua seconda e ultima maggioranza.
Per convincere l’allora presidente del Consiglio a dimettersi, interrompendo la ricerca persino personale di nuovi apporti parlamentari, gli addetti ai lavori istituzionali sudarono le proverbiali sette camicie. Mancò solo l’invio di un carro attrezzi a Palazzo Chigi, come una volta un segretario della Dc minacciò parlando di un collega di partito arroccatosi nell’ufficio di presidente del Consiglio. Erano, rispettivamente, Arnaldo Forlani ed Emilio Colombo.