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Che cosa resta di Starmer nel Regno Unito? Pochino…

Quel che resta di Starmer un anno dopo la vittoria laburista in Gran Bretagna. Estratto di un approfondimento di Marzia Maccaferri, docente di Storia contemporanea e pensiero politico a Queen Mary, University of London, pubblicato su Appunti di Stefano Feltri.

Un anno fa, Starmer aveva dunque regalato un’estate di “ottimismo della volontà” e “pessimismo della ragione” a un popolo di sinistra che, a fatica, cercava di elaborare i lutti della lunga era conservatrice e del caos-Brexit.

Non solo in Inghilterra: Starmer aveva riacceso la speranza anche tra le varie sinistre socialdemocratiche europee.

Oggi, un anno dopo, Starmer ha praticamente ipotecato la sua stessa sopravvivenza politica infilando una serie di banalissimi errori di comunicazione, ma anche di scelte politiche ottuse e palesemente controproducenti, puntando tutto sul piano internazionale, dalla crisi Ucraina allo sposare indiscriminatamente le posizioni di Israele, anche se va riconosciuto un recente, seppur tardivo, ravvedimento.

L’errore che Starmer rischia di pagare caro più di tutti è l’aver dato per scontato, in questi mesi, l’appoggio indiscusso della propria maggioranza, mostrando noncuranza, se non indifferenza, verso i propri parlamentari.

Se l’ultima goccia è stata la riforma del welfare – che lo ha costretto all’ennesima U-turn davanti alla minaccia di una fronda interna pronta a votare contro ai tagli ai sussidi per disabili, disoccupati e lavoratori a basso reddito – la riproposizione ostinata di una sorta di “austerity sotto mentite spoglie” ha spinto all’azione non solo l’opposizione interna di matrice corbynista, ma anche la cosiddetta soft-Left (l’ala socialdemocratica del partito orbitante attorno al sindaco di Manchester Andy Burnham e Louise Haigh, e alla corrente legata a Compass) che ha iniziato a organizzarsi e a far sentire la propria voce.

E poco importa che si tratti più di una comunicazione insoddisfacente da parte del governo e di una percezione distorta dell’opinione pubblica – giustificazione che lo stesso Starmer ha provato ad avanzare in un’intervista a Sky News – piuttosto che di contenuti inadeguati e politicamente contestabili del progetto riformatore. Le ricadute politiche, anche immediate, rischiano di essere gravi.

Con il suo pragmatismo oltranzista, Starmer è ora vittima – e non più capo – della sua stessa maggioranza parlamentare. È schiacciato, da un lato, da frange critiche che avrebbero potuto essere facilmente ricondotte a un confronto interno il quale tuttavia non è mai avvenuto, e che si sono invece istituzionalizzate con un voto contrario ai Comuni, certificando di fatto quanto Starmer sia ormai “ricattabile” dai suoi. E questo dovrebbe far riflettere tutti sulle premature dichiarazioni di morte del Parlamento.

Dall’altro, la sua sufficienza nei confronti delle pratiche lente della politica parlamentare ha prodotto l’ennesima defezione: quella di Zarah Sultana, che ora siede come indipendente assieme ad altri 16, di cui ben 4 provengono dal Labour.

Letta con le nostre lenti della politica “da Seconda Repubblica”, Starmer è riuscito in qualcosa di quasi impossibile: dare visibilità e peso politico al “gruppo misto” in un sistema (formalmente ancora) bipartitico. Non è un buon segnale per un leader che aveva costruito la propria campagna elettorale all’insegna della stabilità interna.

Nel 2024, la strategia del Labour si è concentrata spietatamente sull’ottenere voti e consenso nei collegi chiave per conquistare la maggioranza a Westminster, puntando su un mix di “decontaminazione” e “prudenza”. Una strategia perfettamente riuscita, favorita dal declino dei Conservatori.

Da un lato, Starmer si è focalizzato sul “ripulire il marchio Labour”, minimizzando il ruolo delle idee per trasmettere un messaggio il meno possibile astratto. Starmer ha dunque adottato una strategia di “quietismo ideologico”, evitando dichiarazioni fortemente identitarie: un approccio utile per attrarre l’elettorato socialmente conservatore dei collegi contesi, anche a scapito dell’attivismo dei centri urbani, che si dava comunque per acquisito dopo anni di caos conservatore. Ma oggi le condizioni sono profondamente cambiate e quella “leadership liquida” non funziona più.

Anche sul piano programmatico, la linea era rimasta prudente. Le promesse specifiche sono state poche, soprattutto quelle che comportavano nuove spese (salvo alcune eccezioni coerenti con la strategia di decontaminazione).

In altre parole, Starmer ha seguito la celebre metafora di Roy Jenkins: affrontare la campagna elettorale come chi trasporta un vaso Ming su un pavimento lucidissimo.

Da un certo punto di vista, il suo era un programma di soft-Left o, diremmo noi nel continente europeo, di socialdemocrazia tradizionale. Ma invece di attivare quell’area e ancorarsi a quelle idee, il suo primo anno di governo ha spinto la soft-Left all’antagonismo, portandola alla contro-organizzazione.

La forza della socialdemocrazia, se mobilitata, può essere formidabile e davvero rivoluzionaria. Starmer dovrebbe saperlo: il suo è il partito di Clement Attlee; e il riformismo socialdemocratico è esattamente ciò che ha utilizzato con grande efficacia nella sua campagna per la leadership del 2020.

Poi deve aver dimenticato qualche elemento, convinto di poter governare una congiuntura straordinaria come i tempi in cui viviamo senza idee e abdicando al ruolo di costruzione di un’egemonia politico-culturale.

(Estratto da Appunti)

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