Non per scimmiottare la buonanima di Indro Montanelli, che comunque me l’avrebbe amichevolmente e generosamente permesso, e tanto meno per paragonare Gianni Alemanno addirittura al bandito Graziano Mesina, entrato a suo tempo nelle grazie del maestro del giornalismo italiano, mi chiedo che ci stia a fare l’ex sindaco di Roma, ex ministro, ex leader della cosiddetta destra sociale, a Rebibbia. Dove contribuisce suo malgrado al sovraffollamento penitenziario, riceve e accompagna visitatori eccellenti, com’è accaduto di recente col presidente della Camera Lorenzo Fontana, con tanto di foto d’occasione, per aiutarli a comprendere i problemi che ha preso a cuore e di cui scrive lettere ai giornali. Ma non solo. Ne scrive, o manda copie, anche ad ex colleghi parlamentari, di ogni colore, anche opposto al suo. Che ne fanno uso leggendole in aula.
Anche a costo, giornalista pubblicista com’è, di perdere tanto corrispondente o inviato a Rebibbia e, metaforicamente, in tutti i penitenziari italiani, mi piacerebbe che qualcuno tirasse fuori dalla cella Alemanno. Che, per quanto gravi possano essere apparse al giudice di sorveglianza che se ne occupa le trasgressioni imputategli nella esecuzione ai cosiddetti servizi speciali della pena di un anno e dieci mesi inflittagli per il reato di traffico d’influenze, non mi sembra francamente meritare quello che gli è accaduto e gli accade ancora.
Finito prima come indagato e poi imputato nell’affare giudiziario chiamato addirittura “Mafia Capitale”, come se Roma fosse stata conquistata dall’omonima organizzazione criminale, Alemanno fu presto sottratto processualmente all’aggravante mafiosa. E condannato in appello nel 2020 per corruzione a 6 anni: il doppio chiesto dall’accusa. Poi cadde anche la contestazione della corruzione e la sua colpa si ridusse solo a quella del già ricordato traffico di influenze: un reato nel quale può incorrere chiunque abbia la sventura, infelice idea e quant’altro, di fare o ricevere una raccomandazione. A pensarci bene, io cominciai la mia carriera di cronista, in un giornale romano del pomeriggio, strappando al commissario che gestiva una catena di ospedali l’assunzione come portantino del quasi custode della palazzina in cui abitavo. E che fece a sua volta carriera arrivando alla qualifica di infermiere di camera operatoria. Mi fece fare almeno una bella figura.
Entrato in un affare giudiziario dal titolo così altisonante -ripeto- di Mafia Capitale e uscitone per traffico di influenze, Alemanno secondo me meritava già per questo semplice fatto una certa comprensione, a dir poco. Invece, è ancora lì, consegnatosi spontaneamente a Rebibbia la sera di San Silvestro del 2024 per trascorrervi il Capodanno del 2025 e, temo, anche quello del 2026, se qualcuno o qualcosa non riuscirà a tirarlo fuori per contribuire, non foss’altro, allo sfollamento penitenziario.
Una mano forse, senza volere scomodare direttamente il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, con tutti i grattacapi che ha, ma anche con la bonaria ironia che conosco bene, gliela avrebbe potuta dare la mitica suor Paola d’Auria. Alla quale praticamente Alemanno era stato affidato per l’esecuzione dei servizi sociali in condizioni di libertà. Ma, benedetta suor Paola, di una strepitosa simpatia televisiva, è morta nello scorso mese di aprile.
A parte, ripeto, Mattarella col suo potere di grazia, non servirebbe a niente all’ex sindaco di Roma la simpatia di un vecchio giornalista come me, senza peraltro che mi sia capitato mai di votarlo quando lui era in politica. E riuscì a sorprendere persino Berlusconi riprendendo e completando con la laurea gli studi di ingegneria quando era ministro dell’Agricoltura. Berlusconi ci teneva e fu accontentato, diavolo di un uomo.