Ammettiamo e confessiamo una nostra debolezza. Quando c’è da trovare qualche alfiere del sogno europeo, qualche giapponese ancora disperso nella jungla a guerra ormai finita, il nostro preferito è il professor Sergio Fabbrini.
Non delude mai. Oggi, in particolare, nel consueto domenicale sul Sole 24 Ore, attinge “vette altissime” (si fa per dire…) che commenteremo passo per passo.
L’inizio serve a creare il clima da “ultima spiaggia” con «le opinioni pubbliche europee sconcertate […] e Trump si comporta come il capo di un “impero patrimoniale”, in cui le periferie pagano i costi del centro […] il cui esito sarà un debito di 3.500 miliardi di dollari in 10 anni».
A Fabbrini facciamo sommessamente notare che Joe Biden ha aumentato il debito di circa 9.000 miliardi non in 10 ma in 3 anni. Dov’è il problema ora? Quanto all’impero patrimoniale, Fabbrini scopre forse ora la tendenza imperialista degli Usa che dura da decenni?
Creato il giusto clima di paura, l’approdo naturale del suo ragionamento è quello delle spese per la difesa. E allora via di affermazioni apodittiche come «Gli europei non hanno scelto la guerra, è stata la guerra a scegliere gli europei. Ecco perché occorre cambiare il nostro modo di pensare, riappropriandoci del realismo senza rinunciare all’idealismo e costruendo un sistema di difesa coerente con i valori democratici che ci hanno pacificato». E siccome c’è la guerra – la cui esistenza non vale mettere in discussione, perché l’ha già accertata ex cathedra Fabbrini – dobbiamo attrezzarci e quindi passare a discutere del come farlo.
E qui viene il bello. La facciamo col modello “nazionale”? Giammai! Gli Usa si sono disimpegnati e «il coordinamento tra governi nazionali, gelosi delle proprie sovranità, è destinato a generare paralisi».
La facciamo con i “volenterosi” (Francia e Germania in testa)? Con «la deterrenza nucleare francese estesa ai volenterosi»? Ma «il punto debole di questo modello risiede, non solamente nell’idea che sia possibile fare a meno delle risorse militari americane, ma che i volenterosi accettino una gerarchia tra di loro».
E si arriva così all’apoteosi. La facciamo come abbiamo fatto con l’euro. Lo stesso identico disastro economico e istituzionale, aggiungiamo noi («all’interno dell’Unione europea si crea un sistema sovranazionale di difesa, così come è sovranazionale il sistema per la gestione della moneta comune»).
Forse accortosi della natura acefala e profondamente antidemocratica di tale modello (chi spinge il pulsante per far partire il missile nucleare? Un governo sovranazionale che non esiste?), Fabbrini mette una pezza (peggio del buco) sostenendo che «un sistema sovranazionale che dovrà essere sottoposto ai vincoli della democrazia, con il legislativo europeo dotato del potere di controllo e sanzione sulle decisioni». Peccato si dimentichi del potere esecutivo che è quello che decide. Per non parlare dell’europarlamento in questi anni ha avuto spesso il ruolo del due di coppe quando la briscola è a bastoni.
Tale sbilenco sistema istituzionale «agirà quindi come un attore unitario all’interno della Nato, sostituendo credibilmente la leadership dell’America e agendo sulla base dell’infrastruttura da essa creata. Gli Stati membri potranno mantenere un loro sistema di difesa per affrontare le piccole sfide, ma spetterà al sistema sovranazionale affrontare quelle grandi, sia dall’interno che dall’esterno della Nato. Il punto debole è la sua complessità, ma è l’unico modello che può promuovere una democrazia sovranazionale».
Siamo alle solite. Il modello non può funzionare ed è un fatto noto ex-ante, come con l’euro. Ma sotto la tirannia TINA (there is no alternative) si cerca di sdoganare un mostro istituzionale, privo di sovranità legittimamente e democraticamente conferita, che dovrebbe governare uno degli affari più delicati di uno Stato sovrano: le armi. Cosa potrebbe mai andare storto?
Ma Fabbrini non è minimamente sfiorato da dubbi perché «in un mondo di tiranni, la difesa europea è una necessità e non un’opzione. Il modello che sceglieremo per promuoverla determinerà il nostro futuro. Pensiamoci bene».
Dall’oltretomba riecheggia un «combattenti di terra, di mare e dell’aria! Camicie nere della rivoluzione e delle legioni! Uomini e donne d’Italia, dell’Impero e del regno d’Albania! Ascoltate! Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L’ora delle decisioni irrevocabili […] la parola d’ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola ed accende i cuori dalle Alpi all’Oceano Indiano: vincere! E vinceremo!».
Se non mi sbaglio, non finì benissimo. Ed i toni non mi sembrano molto diversi.