I 100 anni appena trascorsi, il 29 giugno, dalla nascita di Giorgio Napolitano, celebrati ai più alti livelli istituzionali con la partecipazione del Capo dello Stato Sergio Mattarella, comprendono naturalmente i 5 dalla morte, i 19 dalla sua prima elezione a presidente della Repubblica, i 12 dalla sua conferma, i 10 dalle sue dimissioni per dichiarate ragioni di stanchezza. Ma soprattutto, a mio avviso, e nei tempi che corrono di una certa confusione nei rapporti fra poteri e organi dello Stato, i 13 anni dal suo ricorso alla Corte Costituzionale contro la Procura della Repubblica di Palermo. Che lo aveva intercettato trascinandolo nel tritacarne della vicenda giudiziaria e mediatica della trattativa fra lo Stato e la mafia nella stagione delle stragi.
Fra le motivazioni di quel ricorso nel decreto di disposizione datato 16 luglio 2012 il Capo dello Stato volle richiamarsi al “dovere del Presidente della Repubblica”, a suo tempo indicato dal suo predecessore Luigi Einaudi, “di evitare si pongano, nel suo silenzio o nella inammissibile sua ignoranza dell’occorso, precedenti graie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore immuni da qualsiasi incrinatura le facoltà che la Costituzione gli attribuisce”. Il ricorso fu accolto. E le intercettazioni distrutte mentre un esponente notissimo di quella Procura, Antonio Ingroia, prospettava con ironia l’ipotesi che esse potessero un giorno essere rivelate in un romanzo. Che è mancato, almeno sinora.
Contro quel ricorso si levarono voci di costituzionalisti anche famosi che dubitarono della possibilità che i giudici costituzionali fossero liberi di poter dare torto al Capo dello Stato. Che tuttavia è l’unico che possa essere giudicato dalla Corte Costituzionale “sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica a norma della Costituzione”, come dice l’articolo 134. Di quali e quante contraddizioni sono capaci i costituzionalisti quando si lasciano prendere, anzi investire dalle polemiche politiche, se non addirittura promuoverle.
Dopo Francesco Cossiga, che aveva persino minacciato di mandare i Carabinieri al Consiglio Superiore della Magistratura se avesse osato processare a suo modo l’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi, Napolitano è stato il presidente della Repubblica, e dello stesso Consiglio, più difficile per le toghe. Alle quali, scrivendo ad Anna Craxi nel decimo anniversario della morte del marito Bettino, nel 2010, rimproverò senza mezzi termini di avere determinato ai tempi di Tangentopoli un “brusco cambiamento” degli equilibri nei rapporti fra politica e giustizia. Ma rimproverò anche, associandone i processi a quelli sommari sui giornali, di avere praticato contro Craxi “una durezza senza uguali”. Che equivale a mancanza di equanimità, cui il magistrato non può sottrarsi senza tradire la sua funzione.