Skip to content

iran

Missione compiuta di Israele e Usa in Iran?

La tregua annunciata da Trump reggerà o la guerra Israele-Iran riprenderà? Estratto dalla newsletter Appunti di Stefano Feltri

 

La reazione a catena inizia l’8 maggio 2018, a metà circa del primo mandato di Trump alla Casa Bianca: il presidente annuncia l’uscita degli Stati Uniti dal Joint Comprehensive Plan of Action, JCPOA, l’accordo negoziato nel 2015 con il supporto dell’Unione europea per regolare la gestione del programma nucleare iraniano in modo da rallentare il percorso verso possibili impieghi militari.

Trump non si considera uomo da compromessi e dunque la sua strategia è di esercitare la massima pressione sull’Iran, con nuove sanzioni e deterrenza militare.

Questo cambio di approccio non prosegue bene, gli iraniani si sentono in un angolo, accusano il colpo delle sanzioni, nel settembre 2019 si sfiora già la guerra regionale, con attacchi iraniani a navi petrolifere nel Golfo persico e bombardamenti con droni esplosivi stabilimenti petroliferi in Arabia saudita.

Trump insiste sempre con lo stesso metodo: se gli iraniani non collaborano e non si piegano alle richieste degli Stati Uniti, devono sperimentare la furia dell’America. Il 3 gennaio 2020 gli Stati Uniti uccidono a Baghdad Qasem Soleimani, il capo della forza Qods, che coordina le milizie informali incaricate di destabilizzare la regione.”

Soleimani era una specie di terrorista di Stato, ma la mossa di Trump – che sentiva il bisogno di replicare il momento in cui Barack Obama ordinò l’uccisione di Osama bin Laden – provoca soltanto altra tensione, con attacchi missilistici dell’Iran alle forze armate americane di base in Iraq.

Soprattutto, Teheran rilancia il programma nucleare superando per la prima volta i limiti previsti dall’ormai defunto accordo JCPOA: è lo schema che conosciamo, se l’Iran non riesce a reggere il confronto sul piano delle armi convenzionali, evoca la bomba atomica come garanzia di sopravvivenza.

L’amministrazione Biden, tra 2021 e 2024, segue un approccio più pragmatico: bastone e carota, tenere sempre un canale diplomatico aperto, anche perché l’isolamento dell’Iran lo sta schiacciando verso la Russia e le proteste della società civile indicano una voglia di cambiamento dal basso che la guerra e il conseguente nazionalismo difensivo finirebbero per soffocare.

Gli Stati Uniti e l’Iran arrivano a importanti accordi diplomatici, anche spregiudicati, come una triangolazione con la Corea del Sud e il Qatar che sblocca 6 miliardi di dollari di fondi iraniani in cambio di prigionieri detenuti a Teheran.

Ma arriva il 7 ottobre 2023, con il massacro da parte di Hamas di 1200 civili israeliani. La grande idea del genero di Trump, Jared Kushner, era quella di aiutare Israele nel riavvicinamento all’Arabia Saudita, in funzione anti-Iran.

Così gli ayatollah, che sono sciiti, si sono messi a finanziare persino i terroristi sunniti di Hamas pur di scatenare una violenza che avrebbe compromesso – come ha fatto – la normalizzazione dei rapporti di Israele coi vicini arabi.

Arriviamo così a febbraio 2025, appena torna alla Casa Bianca, Trump riprende là dove si era interrotto e detta la linea con il National Security Presidential Memorandum 2: “Massima pressione” sull’Iran per bloccare il programma nucleare e abbandonare il supporto ai gruppi terroristici nella regione, come Hamas e soprattutto Hezbollah.

Proprio mentre con quel memorandum Trump auspica un nuovo accordo sul nucleare, dice anche che ci sono “tutte le opzioni sul tavolo”, incluso l’intervento militare diretto. E ricordiamo che Trump era arrivato alla Casa Bianca appena un mese prima promettendo la fine dell’impegno degli Stati Uniti nelle “forever war”, le guerre eterne come quelle in Iraq e Afghanistan.

A marzo, Trump manda una lettera direttamente alla Guida suprema della rivoluzione, l’ayatollah Ali Khamenei, dove annuncia quello che farà: “Spero che tu voglia negoziare, perché altrimenti entreremo militarmente e sarà terribile per l’Iran”.

Quindi già tre mesi prima del bombardamento dei siti nucleari, Trump minacciava la più alta autorità iraniana di essere pronto a spazzarlo via.

Come sempre, gli iraniani sanno giocare questo gioco, il ministro degli Esteri Abbas Araghchi l’8 aprile scrive un articolo sul Washington Post e nega che l’Iran sia interessato a una bomba, il 12 aprile c’è un primo incontro – dopo anni di gelo – tra diplomatici iraniani e americani, in Oman.

Formalmente si negozia, ma la posizione americana, anzi trumpiana, è troppo grezza per portare a qualunque risultato. Trump, direttamente e tramite l’inviato speciale Steve Witkoff, chiede soltanto “lo smantellamento totale” del programma nucleare a potenziale uso militare.

Gli iraniani suggeriscono ipotesi di compromesso, cercano di riproporre uno schema simile al JCPOA di dieci anni fa, che permetta loro di salvare la faccia e rallenti il processo verso l’atomica.

Tutto questo avviene mentre nel governo americano e nei settori della sicurezza ci sono opinioni molto diverse sul reale pericolo iraniano. L’AIEA, l’agenzia dell’Onu che vigila sul programma, riscontra molte violazioni.

Ma Tulsi Gabbard, la direttrice dell’Intelligence ex Democratica scelta da Trump per le sue posizioni in politica estera allineate con il movimento MAGA, a marzo 2025 spiega al Congresso che “l’Iran non sta costruendo la bomba atomica e la Guida suprema Khamenei non ha autorizzato la ripresa del programma per le armi atomiche che ha sospeso nel 2003”.

Però, osserva Gabbard, di atomica si parla sempre più spesso in pubblico, ma questo potrebbe avere una finalità “teatrale.. di avvertimento alle potenze straniere”.

In pratica, l’Iran parla molto di bomba atomica per nascondere le sue reali debolezze, con una società in ebollizione, il crollo dell’affluenza alle elezioni farsa per la presidenza, e con la Cina che ormai ha diritto di vita o di morte perché è diventata l’acquirente di gran lunga principale del petrolio iraniano che i clienti occidentali non possono più acquistare per le sanzioni.

Il tipo di accordo che Trump pretende dall’Iran non può essere l’esito di un negoziato, perché è in pratica una capitolazione. E dunque resta solo l’ipotesi che il presidente americano evoca dal 2018: bombardare.

Il problema è che la sua stessa direttrice dell’intelligence dice che il pretesto non c’è, la bomba atomica non è imminente, e in assenza di quello non ci può essere neanche una base giuridica del Congresso per consentire al presidente di colpire.

Ma Trump non si ferma davanti a questi dettagli, e alla fine si lascia dettare la linea dal premier israeliano Benjamin Netanyahu. L’attacco di Israele all’Iran il 13 giugno fa saltare i negoziati previsti nel weekend in Qatar, e a quel punto – senza più la diplomazia all’opera – Trump torna al piano originario: la bomba.

La domanda è: funziona?

Se l’obiettivo era scoraggiare gli iraniani e costringerli a rinunciare al programma nucleare, l’esito rischia di essere opposto. E’ ormai quasi certo che l’Iran, o quello che ne rimarrà dopo i bombardamenti israeliani e americani, uscirà dal trattato di non proliferazione nucleare, in modo da non essere più nemmeno soggetto ai requisiti di trasparenza dell’AIEA dell’Onu.

Quanto finora era stato fatto sotto traccia, o forse soltanto annunciato, diventerà la priorità assoluta, perché proprio la soverchiante superiorità dell’esercito convenzionale israeliano e dell’intelligence di Tel Aviv conferma ai leader iraniani di oggi e a quelli che sopravviveranno che soltanto con la bomba atomica in stile Corea del Nord si può evitare l’aggressione.

L’attacco di Israele sostenuto dai bombardieri B2 americani non è più chiaramente diretto soltanto a smantellare il programma nucleare, ammesso che questo sia possibile, e gli iraniani dicono di no.

L’obiettivo è il cambio di regime, come dimostrano gli attacchi israeliani a istituzioni simbolo del potere degli ayatollah, inclusa la prigione di Evin per detenuti politici, dove è stata rinchiusa anche la giornalista italiana Cecilia Sala.

Ma cambio di regime per ottenere cosa? Tutti i tentativi del passato recente si sono dimostrati fallimenti totali o quasi.

(Estratto da Appunti)

Torna su