Skip to content

acciaio

Vi spiego la strategia anti Cina di Trump sull’acciaio

L’effetto indiretto dei dazi di Trump sull’acciaio è che la sovracapacità produttiva di molti paesi asiatici (Cina in primis) si riverserà sull’Europa. L'analisi di Sergio Giraldo

Sono efficaci da pochi giorni i nuovi dazi americani del 50% su alluminio e acciaio importati negli Stati Uniti, a seguito dell’ordine esecutivo firmato da Donald Trump il 3 giugno sulla base della Sezione 232 del Trade Expansion Act del 1962. Questi dazi, che raddoppiano l’aliquota già decisa agli inizi dello scorso marzo, non sono stati oggetto della sentenza del tribunale commerciale di New York  che nei giorni scorsi aveva annullato i dazi reciproci del 2 aprile (poi ripristinati grazie ad un ricorso del governo USA). In quel caso, infatti, i dazi erano stati decisi da Trump sulla base di un’altra legge, l’International Emergency Economic Powers Act (IEEPA).

Gli Stati Uniti sono importatori netti di acciaio: consumano 100-110 milioni di tonnellate di acciaio all’anno, di cui circa 80 milioni di tonnellate prodotte negli Stati Uniti e circa 20-30 milioni di tonnellate, ovvero il 20-25%, vengono importate (a seconda del tipo di acciaio). Nel 2024 gli Stati Uniti hanno importato 26 milioni di tonnellate di acciaio. Dal Canada 6 milioni di tonnellate (circa il 21%), dal Messico 4 milioni di tonnellate (circa il 14%) e dal Brasile 3,5 milioni di tonnellate (circa il 13%).

Secondo la quasi totalità degli osservatori e degli analisti, i motivi di questa nuova impennata improvvisa dei dazi già fissati in precedenza al 25% su acciaio e alluminio sono tre.

Il primo è una ritorsione verso la Cina, accusata apertamente di non mantenere gli accordi provvisori raggiunti nelle scorse settimane sul commercio, in base al quale Trump aveva abbassato i dazi verso la Cina.

Questa spiegazione però ha un difetto: l’import di acciaio negli USA dalla Cina di questi due materiali è meno del 5% dei consumi, cioè una quota trascurabile su cui i dazi cambiano poco o nulla.

Il secondo motivo sarebbe quello di dare un segnale interno al sistema giudiziario americano che secondo la Casa Bianca sta cercando di sabotare le politiche di Trump.

Infine, ci sarebbe un desiderio di rivalsa di Trump, offeso per essere stato definito TACO (Trump always chicken out, Trump si tira sempre indietro) dalle colonne dell’autorevole Financial Times, per la sua ondivaga politica sui dazi. Cosa che ha suscitato una campagna mediatica a base di umilianti meme.

Possiamo però azzardare due spiegazioni appena più sensate.

La prima deriva dal fatto che nello stesso atto con cui Trump ha raddoppiato i dazi su acciaio e alluminio si precisa che il Regno Unito è dispensato dall’aumento, in virtù dell’accordo commerciale raggiunto l’8 maggio scorso (lo U.S.-UK Economic Prosperity Deal).

Per l’acciaio britannico, dunque, il dazio resta al 25%, in attesa di attuare l’accordo che prevede zero dazi su tali merci da entrambe le parti. Si tratta di quantità poco più che simboliche, in realtà: gli USA nel 2024 hanno importato 240.000 tonnellate di acciaio dal Regno Unito, la metà di quanto importato dalla Cina, ovvero molto poco.

Il che significa che più che le cifre dell’acciaio, per Washington rilevano i principi. La destinataria del messaggio è infatti l’Unione europea, non tanto per i volumi (l’export Ue negli USA è stato di circa 4 milioni di tonnellate nel 2024), quanto perché i dazi sono diventati uno strumento per allineare strategicamente gli alleati occidentali ed evitare fughe tra le braccia di Pechino.

L’effetto indiretto dei dazi americani sull’acciaio, infatti, è che la sovracapacità produttiva di molti paesi asiatici (Cina in primis) si riverserà sull’Europa, con l’effetto di abbattere i prezzi e mandare fuori mercato le produzioni europee. Non ci sarebbe dunque da stupirsi se presto anche l’Ue mettesse i dazi sull’acciaio cinese, anche sulla spinta della Germania alle prese con la grave crisi Thyssenkrupp. Se così dovesse andare, si creerebbe un asse con Washington, certamente più obbligato che volontario, ma sempre un asse in chiave anti-cinese.

Il bersaglio grosso, per Trump, infatti, rimane la Cina. I colloqui commerciali in corso con Pechino e le parole di ammirazione con cui Trump descrive Xi Jinping, infatti, non devono trarre in inganno. La Cina è e resterà il rivale sistemico di Washington, anche se è interesse di tutti che il confronto non sfoci in confronti militari diretti.

Il secondo motivo riguarda il consenso interno. Trump, dopo molte esitazioni, ha appena dato il via libera all’operazione US Steel da parte di Nippon Steel. I dettagli dell’accordo non sono ancora noti, ma US Steel resterebbe americana e quello giapponese rappresenterebbe un grosso investimento più che una acquisizione.

La mossa di  Trump è dunque un messaggio ai lavoratori americani della Rust Belt: “Faccio sul serio”. Non a caso i dazi sono stati annunciati durante la visita di Trump a un’acciaieria della US Steel la scorsa settimana, a Pittsburgh in Pennsylvania. Questo swing state ha dato la vittoria a Trump per 120.000 voti di vantaggio su Kamala Harris nelle elezioni dello scorso novembre, proprio sulla promessa di riportare i posti di lavoro nell’industria.

Continuare a dipingere Trump come un folle non aiuta a spiegare la realtà né a chiarire i nuovi disegni di Washington.

Torna su