“Craxi è stato il miglior presidente del Consiglio per visione e modernizzazione, come De Gasperi e Fanfani…Quel suo non tirare a campare mi rappresenta… Chi vuol essere troppo riformista ne paga le conseguenze…. Ha sentito sulle spalle il peso di una responsabilità storica e di non essere riuscito a restituirla… In sedicesimo ci ho provato anch’io”. Parole di Matteo Renzi pronunciate nel teatro Rossini di Roma partecipando alla presentazione del libro dello storico Andrea Spiri sulle “lettere di fine Repubblica”, selezionate fra le tante del leader socialista morto più di 25 anni fa in terra tunisina. Dove aveva dovuto rifugiarsi, nella casa delle sue vacanze, arrivandovi con regolare e valido passaporto, per non perdere in qualche carcere italiano, accusato di finanziamento illegale dei partiti e reati più o meno connessi, quella libertà che “equivale alla mia vita”, come volle che si incidesse sulla tomba che lo custodisce nel cimitero cattolico di Hammamet affacciato sul mare.
Dovrei compiacermi dei giudizi di Renzi sul Craxi tutto politico, oltre che su quello della finale vicenda giudiziaria già citato dal senatore di Scandicci di recente a Palazzo Madama parlando dei problemi propri, di familiari e amici con la giustizia. Dovrei compiacermene non foss’altro per avergli a suo tempo chiesto personalmente di richiamarsi anche politicamente a Craxi, rispondendo come destinatario ad una delle sue lettere elettroniche. E ottenendo come risposta una cortese promessa di rifletterci sopra e un altrettanto cortese ringraziamento.
In fondo Renzi non ci ha impiegato molto da quello scambio di messaggi. Ma moltissimo, forse troppo rispetto ai tempi della politica italiana, dopo avere contribuito alla demonizzazione di Craxi dicendo da segretario del Pd e, se non ricordo male, anche da presidente del Consiglio di preferire al ricordo del suo “opportunismo” quello della “generosità”, onestà e quant’altro di Enrico Berlinguer. Che, non facendo in tempo a vederne la crisi per l’intreccio fra politica e giustizia, anzi per il prevalere della seconda sulla prima, aveva cercato ancora in vita di procurargliela sfidandolo per interposta Cgil di Luciano Lama in un referendum abrogativo di alcuni pur modesti tagli o rallentamenti anti-inflazionistici della scala mobile dei salari. Una sfida che si concluse l’anno dopo, nel 1985, col 54,3 per cento dei contrari all’abrogazione e il 45,7 per cento dei sì. E un’affluenza alle urne del 77,9 per cento degli elettori aventi diritto al voto.
Cifre da capogiro nei tempi referendari che corrono, e che il segretario della Cgil Maurizio Landini ha voluto sfidare l’8 e il 9 giugno prossimo su un terreno analogo, quello del lavoro, con l’aiuto promozionale, nella raccolta di firme e altro, della segretaria del Pd Elly Schlein, del presidente del Movimento 5 Stelle ed ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte e di altri aspiranti all’alternativa al governo in carica di centrodestra. Compreso Renzi, pur deciso nelle parole a difendere acrobaticamente dall’assalto il suo jobs act. Diavolo di un uomo.