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Tutte le apparenti stranezze dell’Asia

C'è un filo comune che lega le ultime vicende politiche in Giappone, Corea del Sud, Taiwan e non solo. L'analisi di Lodovico Festa

Leggendo distrattamente e separatamente le notizie della cronaca politica degli Stati dell’Asia orientale, non è facile capirne la logica profonda. Perché lo sciagurato presidente della Corea del Sud Yoon Suk-yeo dichiara la legge marziale, manda l’esercito per le strade, viene smentito dal Parlamento e deve lasciare nel caos? Perché il partito al governo del Giappone (Ldp) ha perso (relativamente) le elezioni? Perché il Partito democratico del progresso vince le politiche a Taiwan, ma poi è sconfitto malamente alle amministrative? Perché il governo del Bangladesh, nato dalle rivolte studentesche, inasprisce i rapporti con l’India? Perché a Ceylon vince le elezioni il Npp, partito di sinistra con ottimi rapporti con Pechino? Perché l’India, che ha visto intralciare la costruzione del corridoio economico con Medio Oriente ed Europa mediterranea da un’evidente convergenza tra Cina e Iran con annessi Hamas e Houthi, sigla un accordo con Pechino sui confini tra i due principali stati dell’Asia orientale nell’Himalaya? Perché a settembre Joe Biden viene accolto trionfalmente in Vietnam, e a dicembre la stessa accoglienza trionfale è riservata a Xi Jingping?

Naturalmente ognuno degli avvenimenti citati ha una sua specifica spiegazione: Yoon era un inesperto, corrotto e infine disperato presidente, il Ldp giapponese è da sempre al potere e ciò presto o tardi logora, il Partito democratico del progresso ha una politica estera condivisa dal popolo ma il Kuomintang suo rivale ha più radici sul territorio. La rivolta in Bangladesh è stata determinata anche dai troppi passati legami tra Dacca a Nuova Delhi. Ai vietnamiti servono gli americani per tener a bada Pechino ma serve molto anche Pechino per espandere la propria economia. Il successo del Npp a Ceylon è una risposta a un cattivo governo locale. Dunque ogni avvenimento ha la sua più o meno particolare giustificazione, però le tendenze politiche dell’Asia orientale non si comprendono senza anche una spiegazione più generale.

Queste tendenze sono, di fatto, in parte considerevole frutto dell’incombente presenza della Cina, con la sua “seconda economia” mondiale e quindi con gli interessi materiali che è in grado di mobilitare, con il suo stato poliziesco ricco di complesse e tecnologiche strutture di disinformazione, con forze armate sempre più moderne e consistenti. Conta anche la strategia di Xi Jingping via Brics (associazione fondata da Russia, India, Cina, Brasile e Sud Africa), di offrire un’alternativa alla guida unilaterale globale degli Stati Uniti, pesa la “paura” degli elettori che fa impazzire semipolitici come Yoon. E incide la fragile leadership americana con i suoi tempi interminabili per completare le scelte strategiche dell’Imec, dell’Aukus e del Quod.

In tale contesto i Chamberlain dei nostri tempi vogliono dimettere l’idea di una polarità delle democrazie liberali: meglio un assetto multilaterale, meglio un po’ di vergogna che le catastrofi. Speriamo non gli tocchi insieme vergogna e catastrofi.

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