(La prima e la seconda parte della trilogia si sono possono leggere qui e qui)
Ma torno al mistero della singolare pianta del mio appartamento: a svelarlo sarà proprio il mio vicino che lavora alla radio. Il vicino, come dicevo, è di orientamento liberal, anche se la sua politica demografica a scala familiare è piuttosto di destra. È infatti più giovane di me, ma ha già tre figli, che però a dispetto della loro giovanissima età sono educatissimi: stanno quasi tutto il giorno a giocare sul comune ballatoio-ringhiera, ma non hanno mai attentato alla sopravvivenza delle piante che vi tengo davanti all’ingresso di casa. I ragazzini rispettano anche il gatto di un vicino e anche il canuccio di un’anziana vicina. La mia intesa con il vicino data dal giorno in cui, prima ancora di occupare l’appartamento, bussai alla sua porta per presentarmi e avviare un rapporto di buon vicinato, sperando si convertisse in amicizia.
E fu così che un giorno, mentre lui aveva operai per casa che stavano facendo non so quali lavori di ristrutturazione, lo invitai da me per un caffè. La prima parte del nostro incontro fu occupata dalle solite discussioni verso cui gli stranieri trascinano gli ungheresi, specialmente sul loro atteggiamento nei confronti dei sovietici che occupavano il Paese fino all’inizio degli anni Novanta del passato secolo. Passai poi a chiedergli di come fosse la vita in Ungheria ai tempi di Kadar, quelli che in Occidente venivano chiamati gli anni “del socialismo al gulash”, per indicare che vi ci si viveva molto meglio che in altri Paesi in orbita sovietica. “Niente code”, così il mio amico sintetizzava la differenza fra quell’Ungheria e i suoi vicini, “e poi noi uscivamo la sera e andavamo anche per locali aperti di notte, cose impensabili nel resto dell’Est, anche se per noi il comunismo migliore era quello della Jugoslavia, era comunismo con i soldi quello”.
Poi passiamo a quello di cui a me piace di più imparare e di cui discutere, e cioè di come fosse la vita nei tre anni della democrazia dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e prima dell’affermazione della repubblica popolare e del sistema a partito unico. “Mia nonna – pace all’anima sua” (singolare ascoltare un liberal che usa parole come “anima”) – “e mio nonno erano agiati cittadini. Non ricchi, ma abbastanza agiati. Nessuno dei due si occupò mai di politica. Durante la guerra non se l’erano passata troppo male; dopotutto c’era chi stava peggio. Le loro idee erano conservatrici, mai naziste. Per loro poteva andare bene l’amicizia fra l’allora nostro reggente e Mussolini, non il fatto che finimmo nelle mani dei nazisti di casa nostra quando cacciarono Horthy. Anche perché da allora in poi dalle loro amicizie scomparve la famiglia del dottor Bernstein, miglior amico di famiglia da decenni, ebreo e per giunta di sospette idee socialiste, sposato con una delle donne più belle della città” (e qui mi mostra una fotografia di una festa con amici della fine degli anni Trenta).
“Alle elezioni democratiche dopo la guerra votarono per il Partito dei Piccoli Proprietari, come quelli che in Italia votavano per la Democrazia Cristiana. Per loro il comunismo era un sistema di cui avevano paura, ma si erano adattati a un sistema di transizione in cui non ci si chiamava signore o signora, ma neppure compagno o compagna, ma cittadino e cittadina. Andavano a passeggio per il corso davanti al Danubio come avevano fatto prima della guerra, al fatto che a comandare fosse l’Armata Rossa non ci facevano caso, a loro bastava per rassicurarli che le elezioni continuava a vincerle il Partito dei Piccoli Proprietari. Tu sai come andarono a finire le cose, scivolammo lentamente dalla democrazia alla dittatura. Tre mesi dopo le elezioni del 1949, quando i comunisti avevano imbrogliato i risultati e si erano mangiati il partito socialdemocratico, mio nonno fu convocato in un ufficio. Gli dissero che in famiglia erano troppo pochi per l’appartamento di loro proprietà in cui vivevano, per cui dovevano cedere alcune stanze che sarebbero state date a chi ne aveva bisogno. E così le tre grandi stanze del tuo appartamento con accesso dalla cucina che era stata la stanza da letto della servetta, passarono ad altri e fra quelle stanze e il resto del nostro appartamento le porte di comunicazione furono murate. A noi rimase parte del resto, ma un’altra parte ancora fu poi data a un’ulteriore famiglia che accedeva da quello che era lo scalone, per cui la mia famiglia cominciò a abituarsi a salire dalle scale che prima erano destinate a servette e garzoni. Finché non misero quel misero ascensore. Ecco, adesso hai capito perché nel tuo appartamento si accede dalla cucina, pardon dall’ex-stanza della serva, e non dallo scalone, e perché il tuo appartamento ha forma di T”.
(3. fine)
(La prima e la seconda parte della trilogia si sono possono leggere qui e qui)