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budapest

Storie della casa a T

Seconda parte della trilogia budapestina scritta da Alessandro Napoli, che ha abitato nella capitale ungherese all'inizio degli anni Duemila

 

Negli anni Settanta del passato secolo, quelli che per intenderci all’Ovest venivano etichettati come gli anni del socialismo al gulash, quelli del “chi non è contro di noi è con noi” (vera rivoluzione rispetto ai tempi dello stalinismo), la vita degli abitanti dell’edificio venne semplificata. Comparve, a fianco della scala che un tempo era stata riservata alle servette e ai garzoni, un ascensore moderno. La colonna la misero fuori dall’edificio, sopra il cortile interno che oggi è il focus dell’interesse e del tempo degli anziani coltivatori della domenica che lo abitano. “Il nostro era un condominio di persone perbene”, mi dice la solita Ilona, “e poi qui da noi venne a vivere anche gente importante, gente del partito. Al secondo piano c’era però un professore di violoncello che suonava nell’orchestra sinfonica: da un lato lo tenevano d’occhio perché non si vergognava di dire come la pensava e perché veniva da una famiglia di nobili, dall’altro lo premiavano perché era bravo, anche se non era iscritto al partito”.

L’ascensore porta ai piani e le porte si aprono sui ballatoi all’aperto. Per raggiungere il mio appartamento devo uscire dall’ascensore girando a destra, attraversando qualche stenditoio e scavalcando bambini piccoli che si sfidano in bicicletta e in triciclo, scambiando il ballatoio per l’Hungaroring, la pista che ospita il Gran Premio d’Ungheria di Formula Uno, il primo della specialità a essere stato disputato in un Paese che allora era ancora considerato “oltre-cortina”. I bambini sono tre, tutti maschi e tutti nati a poca distanza l’uno dall’altro, tutti figli di Janos, il mio vicino. Janos è giornalista e lavora alla radio, a pochi passi da qui cioè. Ha una quarantina d’anni ed è di idee liberal. È a lui che devo il fatto di aver capito in che posto mi sono trovato a abitare, e il perché della stranezza della pianta dell’appartamento che mi trovo a occupare. A lui devo, beninteso, anche altre cose, fra cui il fatto di avermi sostenuto quando ho avuto bisogno di qualcuno che mi aiutasse a superare i rischi di aver sfiorato un infarto.

L’appartamento che occupo è di proprietà di un gentiluomo di nazionalità tedesca, di padre ungherese e madre austriaca. Vive a Monaco ma di lui non farò la conoscenza fino al giorno in cui gli consegnerò le chiavi dell’appartamento. Peccato, solo quel giorno capimmo entrambi che saremmo potuti diventare buoni amici fin dal primo giorno che avevo messo piede in casa sua. Dell’amministrazione dell’appartamento si occupa una certa Gabriella, avvocato con studio a qualche metro da casa che guida una mini superaccessoriata e cui affido scrupolosamente, ogni mese, la pigione. Pas question di trasferire il dovuto con bonifico bancario, ma questa è un’altra storia, che riguarda i modi con cui avvengono le transazioni commerciali in Ungheria, non la sostanza di questo racconto.

Devo dire che l’appartamento che occupo mi è piaciuto fin dal primo momento che l’ho visto. Eccellente la posizione e eccellenti le rifiniture. Il palazzo è, come dicevo, davvero d’antan, ma l’appartamento è d’avanguardia per questi tempi. È completamente domotizzato (direi persino troppo, per esempio le luci del bagno si accendono automaticamente quando ne apro la porta, ma si spengono dopo un pò mentre sono a fare il bagno nella vasca, per cui per riaccenderle devo fare strani gesti propiziatorii per aria dalla vasca da bagno per risvegliare i sensori). Il riscaldamento è a gas e non del tipo di quartiere. L’arredamento è minimalista, IKEA doc per capirci, ma questo fa sì che non entri in conflitto con le belle strutture della casa, ma al contrario le valorizzi.

Però è strano. Non me ne rendo conto prima di occuparlo, ma dopo. Ha una pianta a “T”. Si entra dalla balconata a ringhiera attraverso la cucina, per poi guadagnare un grande salone dove è sistemato un televisore che più che televisore è un home theatre, collegato però a un servizio di tv via cavo, di quelli che a decidere i canali visibili non sei tu orientando una parabola, ma il gestore del servizio che ti offre una scelta fra diversi bouquet. Due grandi stanze sono rispettivamente a destra e a sinistra del salone: a destra una arredata da stanza degli ospiti, a sinistra un’altra grande come una piccola sala da ballo che è invece una stanza da letto con un letto matrimoniale talmente grande che si fa fatica a trovare in commercio lenzuola e piumoni che riescano a coprirlo per intero.

Le tre grandi stanze che formano l’ala superiore della T hanno finestre che danno sulla strada perpendicolare a quella di accesso al condominio, tra la Piazza della Libertà e il Lungodanubio.

Se ti affacci guardando a sinistra hai scorci del panorama della collina di Buda. Se ti affacci guardando a destra cogli uno squarcio della piazza della Libertà e del palazzo della radio. Di fronte hai invece una vista su tre edifici che rappresentano una gamma del processo di transizione dall’epoca socialista a quella della rampante economia di mercato. Quello più a sinistra per me che guardo ha solo due piani ed è in stile che definirei di tardo barocco ungherese. A occhio e croce ne daterei la costruzione fra uno degli ultimi decenni del secolo XVIII e i primi due del successivo. Gli hanno ridipinto la facciata in colore crema. Di quello ne conosco bene anche l’interno, perché è proprio lì che ha lo studio Gabriella. Non si sono limitati a lavargli la faccia ma lo hanno ristrutturato profondamente: ascensore in acciaio, portone che si apre componendo un codice segreto, appartamenti con pavimento in parquet esclusivo, bagni con sanitari italiani, cucine accessoriatissime.

Della data di nascita di quello più a destra, direi invece che sia più o meno la stessa dell’edificio in cui abito. Facciata ridipinta in una variante del rosso mattone ma scala rimasta ai tempi della Reggenza. Al piano terra ospita i locali di quello che era un grande ristorante di Stato, oggi occupati da un ristorante cinese troppo grande per riempire di clienti tutti i tavoli di cui dispone, tranne nei giorni delle feste cinesi. Quello di centro è più piccolo di quelli laterali e direi che è decisamente di più recente edificazione, a cavallo fra i due secoli passati per intenderci. Di quale ne sia stato il colore originario della facciata non ho idea. Di certo fra i tre è quello che ha avuto meno fortuna. Ospita gli uffici di un servizio dello Stato, di quelli che sopravvivono a stento in attesa di essere chiusi o trasformati in “agenzie pubbliche” sul modello anglosassone. La facciata è di colore grigio, nel senso di colorata con lo smog dei riscaldamenti a lignite dell’epoca socialista e di prima ancora. Altri segni distintivi: buchi dovuti a colpi di armi pesanti usate contro gli insorti durante la rivolta del 1956 e un balcone cui manca il parapetto, su cui si sporge una porta-finestra la cui apertura verso l’esterno è inibita da due assi di legno disposte in modo incrociato per impedire che qualche sprovveduto si avventuri sul balcone o che qualche disgraziato usi il balcone come trampolino per dare fine alla sua vita. (2. continua)

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