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Giorgetti

Perché Gino Strada raccoglie l’onore delle armi

I Graffi di Damato

 

A pensarci bene viene la pelle d’oca, e un nodo ti si stringe alla gola. La morte di Gino Strada è stata coerente con tutta la sua vita durata 73 anni, spesa in generosità e rabbia insieme: la generosità del medico nei soccorsi, prestati dalla fonazione della sua “Emergency”, nel 1994, a 11 milioni di persone di 19 Paesi, e la rabbia dell’uomo inascoltato nella denuncia della inutilità delle guerre. L’unica che forse in vita sua egli aveva condiviso, pur avendo materialmente potuto solo ascoltarne o leggerne i racconti e vedere le immagini d’archivio e cinematografiche, si svolse nella terra dove ha inconsapevolmente scelto di morire dopo un ennesimo intervento al cuore e le nozze con la sua assistente Simonetta: la Normandia dello sbarco decisivo, nel 1944, per la sconfitta dei nazisti.

Raggiunto al telefono in quello che sarebbe stato il penultimo giorno della sua vita dall’amico e direttore della Stampa Massimo Giannini per la richiesta di un “racconto” dei sette anni da lui trascorsi in Afghanistan, a soccorrere le vittime di una guerra dall’esito secondo lui scontato contro chi l’aveva promossa oltre Atlantico, Gino Strada non esitò a rispondere sì. I fatti  -tra la ritirata delle truppe occupanti e l’avanzata generalizzata dei talebani, ormai lanciati verso una Kabul simile alla Saigon del 1975 – gli stavano così tragicamente dando ragione che quel racconto gli spettava di diritto. Ma, pubblicato ieri appunto come tale, con un sobrio richiamo in prima pagina, esso è diventato con la morte dell’autore il suo “testamento morale”, come ha scritto Giannini riaggiornandone metaforicamente il titolo.

Da morto – come non accade sempre, a dire la verità, ma a lui sta accadendo a dimostrazione del carattere unico, o speciale, della sua avventura umana – Gino Strada raccoglie l’onore delle armi di chi lo ha combattuto dandogli del pacifista in senso spregiativo, come di un rinunciatario, al limite complice del prepotente o terrorista di turno meritevole di una lezione armata. Lui più semplicemente si sentiva e dichiarava “contrario alla guerra”. E quella in Afghanistan ha avuto anche il torto, la disavventura, chiamatela come volete, di essere stata condotta come peggio, francamente, non si poteva, e non potrebbe concludersi. Anche i tempi e i modi del ritiro si sono rivelati sbagliati, col paradosso di quei tremila uomini che americani e alleati stanno mandando, dopo avere ritirato i 2500 ancora presenti nel mese di gennaio, per cercare di garantire l’evacuazione di una Kabul che i talebani stanno per conquistare.

L’Occidente paga in Afghanistan l’errore commesso, a mio avviso, più di 40 anni fa, quando investì in funzione antisovietica, nel mondo bipolare uscito dagli accordi di Yalta, l’integralismo mussulmano rappresentato appunto dai talebani. Che si sarebbero rivoltati contro l’Occidente, dopo averne sfruttato gli aiuti, ancor più di quanto non avessero fatto contro i sovietici. I quali ne avevano avvertito prima e meglio la pericolosità.

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