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Quota 100

Tutti gli errori di Orlando su ammortizzatori e delocalizzazioni

Le mosse del governo su ammortizzatori sociali e aziende analizzate da Giuliano Cazzola   Se non scappa di mano la variante Delta, se si trova un modus vivendi nell’organizzare il rientro in sicurezza nei posti di lavoro (le polemiche sul green pass sono assurde) in autunno sarebbe possibile consolidare un trend di ripresa che si…

 

Se non scappa di mano la variante Delta, se si trova un modus vivendi nell’organizzare il rientro in sicurezza nei posti di lavoro (le polemiche sul green pass sono assurde) in autunno sarebbe possibile consolidare un trend di ripresa che si annuncia più promettente di quella di altri partner europei. Vi sono però dei segnali non incoraggianti per quanto riguarda alcune iniziative a livello governativo che non colgono le esigenze di accompagnare lo sviluppo. E’ quanto emerge in primo luogo dalle linee generali della riforma degli ammortizzatori sociali presentata dal ministro Andrea Orlando il 9 agosto scorso.

Come ha scritto Alessandro Barbano su Huffington Post a commento delle proposte contenute nelle 6 pagine del documento, anziché ‘’assorbire gli effetti della crisi aperta dalla pandemia e assecondare la transizione produttiva che ci aspetta, facilitando la riqualificazione e il reinserimento dei lavoratori espulsi’’ la direzione imboccata però è tutt’altra: “mettere in piedi una nuova gigantesca macchina di sussidi pubblici, che cristallizzi la crisi e la carichi sulle spalle del bilancio dello Stato, cioè sul debito che pagheranno i figli e i nipoti. Il ritorno per la politica è ancora una volta la fidelizzazione del consenso, al prezzo di otto-nove miliardi di euro all’anno. Sarebbe il reddito di cittadinanza bis, una potente leva di diritti sociali, stavolta nelle mani del Pd, capace di recuperare la fiducia perduta dei ceti popolari e di rinsaldare il collateralismo sindacale”.

L’impostazione di fondo della riforma Orlando, infatti, è la prosecuzione ‘’con altri mezzi’’ del blocco dei licenziamenti e il suo compito sembra essere quello di garantire il più a lungo possibile la manodopera in esubero legata alla impresa  di appartenenza ancorchè priva di prospettive, piuttosto che attivare gli strumenti e le risorse per ricollocare coloro che quel posto di lavoro lo hanno già perduto, perché la crisi, i processi di ristrutturazione e di riconversione, i salti nelle tecnologie hanno voluto così. Il punto cruciale sta nelle modifiche proposte per la cassa integrazione di cui vengono dilatati in una logica conservativa gli interventi nelle loro particolari finalità. A segnalare questo straripamento sono le due nuove causali: prospettata cessazione dell’attività e liquidazione giudiziaria. Il trattamento di cassa integrazione straordinaria può essere chiesta anche per processi di transizione (prospettata cessazione dell’attività) da parte di Pmi con meno di 15 dipendenti.

La linea è quella di Maurizio Landini: ‘’Gli ammortizzatori devono essere la strada da scegliere prima di aprire procedure di riduzione del personale’’. Non si tratterebbe più di usare quella strumentazione di sostegno al reddito in vista di una ripresa, in tempi più o meno lunghi in relazione ai processi di riorganizzazione e riconversione da affrontare. Gli ammortizzatori sociali dovrebbero essere usati anche  per prolungare l’agonia di un sito produttivo, soltanto per mantenere la continuità giuridica di rapporti di lavoro in realtà già finiti. A pensarci bene è la linea che i sindacati portano avanti in quel gruppo di aziende che sono diventate, anche a livello mediatico, il segno di quanto è avvenuto  e può ancora succedere dopo lo sblocco dei licenziamenti. Per dirla con franchezza si sta pensando ad una riforma degli ammortizzatori sociali finalizzata a risolvere i problemi dei dipendenti delle imprese (in primis multinazionali) che vogliono chiudere, non di quelle che cercano manodopera da assumere per continuare a lavorare.

Che questa sia la strategia di alcuni settori del governo lo si capisce anche dall’esame della bozza di decreto contro le delocalizzazioni. A stare alla individuazione delle aziende a cui si applicherebbero le nuove disposizione sembrerebbe un decreto ad hoc (mancherebbe solo l’indicazione delle ditte, altrimenti si potrebbe chiamare decreto Whirlpool). Si tratterebbe delle imprese che al 1° gennaio dell’anno in corso occupano almeno 250 dipendenti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e che intendono procedere alla chiusura di un sito produttivo situato nel territorio nazionale con cessazione definitiva dell’attività per ragioni non determinate da squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne renda probabile la crisi o l’insolvenza. Queste imprese sarebbero tenute a dare comunicazione preventiva con l’indicazione delle ragioni economiche, finanziarie, tecniche o organizzative del progetto di chiusura, il numero e i profili professionali del personale occupato e il termine entro cui è prevista la chiusura.

L’ulteriore adempimento consiste nella presentazione di un pian con le azioni programmate a)per la salvaguardia dei livelli occupazionali e gli interventi per la gestione non traumatica dei possibili esuberi, quali la ricollocazione presso altra impresa, le misure di politica attiva del lavoro, quali servizi di orientamento, assistenza alla ricollocazione, formazione e riqualificazione professionale, finalizzati alla rioccupazione o all’autoimpiego; b) le prospettive di cessione dell’azienda o dei compendi aziendali con finalità di continuazione dell’attività, anche mediante cessione dell’azienda, o di suoi rami, ai lavoratori o a cooperative da essi costituite; c) gli eventuali progetti di riconversione del sito produttivo, anche per finalità socio-culturali a favore del territorio interessato; d) i tempi, le fasi e le modalità di attuazione delle azioni previste.

Proseguendo entrerebbe in scena una sibillina ‘’struttura per la crisi della impresa’’ la quale concluderebbe l’esame del piano entro trenta giorni dalla sua presentazione. La medesima struttura, sentite le organizzazioni sindacali e l’Anpal, approverebbe il piano qualora dall’esame complessivo delle azioni in esso contenute risultassero sufficienti garanzie di salvaguardia dei livelli occupazionali o di rapida cessione dei compendi aziendali. Con l’approvazione del piano, l’impresa assume l’impegno di realizzare le azioni in esso contenute nei tempi e con le modalità programmate e a effettuare le comunicazioni previste.

La procedura di licenziamento collettivo non potrebbe essere avviata prima della conclusione dell’esame del piano. Vi sarebbero pesanti sanzioni economiche nel caso in cui l’azienda non presentasse il piano o procedesse alla chiusura nonostante la sua mancata approvazione. Per fortuna si tratta di una bozza che ci auguriamo ‘’dal sen fuggita’’. Perché non possiamo credere che un decreto di tal fatta possa essere stato concepito da una mente lucida. Qualcuno si renderà ben conto che, con queste norme, una impresa straniera che voglia investire in Italia si porrebbe la seguente domanda: ma in un Paese in cui la giustizia civile non funziona è mai possibile che il solo processo che dovrei subire riguarderebbe le mie scelte produttive? Nel movimento operaio si discusso molto nel secolo scorso del ‘’socialismo in un solo Paese’’. Oggi siamo arrivati al socialismo in una singola azienda.

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