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Globalizzazione

La globalizzazione è davvero morta?

Stiamo davvero vivendo una fase di de-globalizzazione e cosa significa per gli investitori? L'analisi a cura di Stephen Dover, Head of Franklin Templeton Institute

 

Dalle nostre case e dai nostri uffici possiamo ordinare una serie inimmaginabile di beni e servizi, che ci vengono consegnati a domicilio da quasi tutti i paesi del mondo e che possiamo gustare a nostro piacimento. Tuttavia, non è sempre stato così. Nei millenni precedenti alla guerra civile americana, gli incessanti conflitti umani – al pari delle barriere fisiche dei trasporti e delle comunicazioni – hanno allontanato nazioni, civiltà ed economie.

Tuttavia, il mezzo secolo intercorso tra la fine della guerra civile statunitense e l’inizio della prima guerra mondiale ha visto nascere un’economia globalizzata. Proseguendo, il periodo dal 1914 al 1945 è stato segnato da due guerre mondiali inframezzate dalla Grande Depressione, che ha infranto il primo tentativo di globalizzazione dell’umanità. Solo nel 1945, sotto l’egemonia americana, si riavviò la seconda grande era della globalizzazione. Questa ondata di globalizzazione si è accelerata per quasi quattro decenni e ha acquisito un forte slancio con l’emergere della Cina nell’economia mondiale all’inizio degli anni Ottanta. La caduta del muro di Berlino in Germania, con l’apertura dei paesi comunisti dopo il 1989, ha rafforzato questa tendenza.

Oggi la parola d’ordine è de-globalizzazione. Indica la tendenza a muoversi verso un mondo meno interconnesso, in cui dominano ancora una volta gruppi di Stati nazionali con nuove barriere alla libera circolazione di beni, servizi, capitali e lavoro. Le ragioni del prevalere di questa visione sono molteplici, ma per capire se è davvero la strada che stiamo percorrendo, dobbiamo capire come siamo arrivati a questo punto.

Cosa guida la globalizzazione?

Osserviamo tre forze alla guida della globalizzazione. In primo luogo, la capacità di accorciare le distanze sia nei trasporti che nelle comunicazioni. In secondo luogo, l’impegno degli Stati nazionali a stabilire e aderire a regole, standard e tutele che garantiscano la relativa libertà di circolazione attraverso le frontiere di beni, servizi, capitali e manodopera. In terzo luogo, l’incentivo delle imprese e dei consumatori a spingersi oltre i limiti del possibile nella continua ricerca del profitto e del piacere. Anzitutto, consideriamo il ruolo della tecnologia nel connettere il mondo. La globalizzazione non ha potuto vedere la luce fino a quando i moderni velieri, le strade, le ferrovie e i viaggi aerei non hanno reso possibile e conveniente il trasporto mondiale. In modo simile, il telegrafo, i cavi sottomarini, i telefoni, la radio e, più recentemente, Internet e i satelliti hanno reso possibile la comunicazione istantanea su grandi distanze.

La globalizzazione ha avuto bisogno delle tecnologie emergenti del XIX secolo e dei loro successivi perfezionamenti per ridurre le distanze di trasporto e comunicazione. Secondariamente, la globalizzazione richiede la partecipazione degli Stati nazionali – volontaria o imposta. Le prime ondate di globalizzazione sono arrivate con la colonizzazione e gli imperi europei, culminando con il dominio della Gran Bretagna come potenza navale globale nel XIX e all’inizio del XX secolo. Le guerre mondiali hanno sgretolato questo dominio e la leadership egemonica globale è passata agli Stati Uniti nel 1945.

Tuttavia, a differenza del XIX secolo, negli ultimi 75 anni l’economia globalizzata è stata codificata in leggi, trattati e standard internazionali che hanno finito per generare scambi transfrontalieri, finanza, trasporti, viaggi e, in misura minore, immigrazione.

La seconda grande era della globalizzazione è stata il frutto di un percorso concordato, anziché essere imposta dall’impero. A fondamento della globalizzazione moderna sono nate le istituzioni di Bretton Woods, tra cui l’Accordo Generale sul Commercio e sulle Tariffe (GATT, poi trasformatosi in Organizzazione Mondiale del Commercio), il Fondo Monetario Internazionale (FMI), la Banca Mondiale e una serie di altre organizzazioni internazionali e governative. Insieme, queste organizzazioni hanno stabilito le norme legali, di sicurezza, commerciali e pratiche dell’impegno economico e finanziario globale.

Come terzo punto, dati i mezzi tecnologici utili alla globalizzazione e le garanzie legali, politiche e di sicurezza, era praticamente scontato che le logiche di profitto e di consumo avrebbero raggiunto il risultato ambito. Nei sei decenni che vanno dalla fine degli anni Quaranta alla crisi finanziaria globale del 2008, la crescita del commercio mondiale e delle transazioni finanziarie transfrontaliere ha superato facilmente il tasso di crescita dell’economia globale (si veda il grafico seguente). Le imprese orientate al profitto e il desiderio dei consumatori di acquistare più beni a costi inferiori hanno fatto esplodere la globalizzazione in meno di una generazione.

In tal modo, sempre più persone in tutto il mondo sono state sottratte alla carestia, alla povertà e all’indigenza, come mai era accaduto in qualsiasi altra epoca della storia umana.

Qual è il futuro della globalizzazione?

Come dimostra chiaramente anche il grafico, l’era positiva di uno sviluppo del commercio mondiale più rapido di quello del prodotto interno lordo (PIL) si è conclusa all’incirca all’epoca della crisi finanziaria del 2008. Da allora, il commercio è cresciuto meno del reddito mondiale. L’adozione di accordi commerciali multilaterali è stata una delle forze trainanti della globalizzazione del dopoguerra. Tuttavia, l’ultima grande apertura dei commerci risale al 2001, quando la Cina è stata ammessa all’Organizzazione Mondiale del Commercio.

Malgrado i notevoli sforzi, da allora i progressi sono stati scarsi, a dispetto delle significative opportunità da cogliere nel settore agricolo e dei servizi. È questo uno dei motivi principali della crescita sottotono del commercio globale, negli ultimi due decenni, a ritmi inferiori rispetto al PIL mondiale. E come suggeriscono i sondaggi, in diversi paesi tra cui Stati Uniti e Regno Unito il sostegno popolare alla globalizzazione è diminuito drasticamente nell’ultimo decennio.

Nel mondo accademico e politico sono sorte nuove sfide ai principi del libero scambio del vantaggio comparativo e del vantaggio reciproco che David Ricardo enunciò per la prima volta circa 200 anni fa. La teoria del commercio strategico analizza come le imprese con rendimenti di scala crescenti possono acquisire un elevato potere di mercato e generare grandi benefici economici nazionali. La ricerca, i social media e le telecomunicazioni ne sono un esempio. Basti pensare alla Silicon Valley in California. La teoria del commercio strategico ha sostenuto un’evoluzione delle politiche, dal libero scambio alla promozione, al sovvenzionamento e persino alla protezione delle industrie del futuro, come l’intelligenza artificiale o le forme alternative di energia. Si può dire che la tesi contro il libero scambio, se non addirittura a favore di un vero e proprio protezionismo, ha trovato sostegno tra le file del mondo accademico ed è approdata nell’arena politica. Infine, a risentire pesantemente dell’ascesa del populismo è stata l’immigrazione. Lungo i confini degli Stati Uniti e di alcuni paesi europei sono stati eretti muri fisici alle frontiere, mentre barriere virtuali limitano l’assegnazione di visti e permessi di lavoro quasi ovunque.

I fattori non economici stanno ridefinendo la globalizzazione?

Le sfide alla globalizzazione riflettono anche i timori per la sicurezza nazionale. Alla leadership postbellica degli Stati Uniti si è sostituita una rivalità strategica, visibile sui campi di battaglia dell’Ucraina e sui palcoscenici politici di Pechino e Washington.

Le restrizioni imposte dagli Stati Uniti alla tecnologia di produzione di chip per computer di fascia alta sono l’ultimo esempio di come la sicurezza nazionale stia ostacolando la globalizzazione. La concorrenza strategica si estende anche alle regole contabili, che stanno contribuendo a impedire l’ingresso delle società quotate cinesi nei listini statunitensi. Nel complesso, la tendenza a far prevalere la sicurezza nazionale sull’economia sta ulteriormente compromettendo gli investimenti transfrontalieri, il commercio e i flussi di capitale. Intanto, la pandemia di COVID-19, l’invasione russa dell’Ucraina e l’inasprimento delle tensioni geopolitiche hanno chiamato in causa la dipendenza da catene di approvvigionamento lunghe e vulnerabili con scorte di magazzino limitate, in “pronta consegna”, che la globalizzazione moderna aveva eretto a pilastro di efficienza.

A breve, forse, l’adozione diffusa di tecnologie che consentono di risparmiare sulla manodopera, come la robotica, l’intelligenza artificiale o la stampa 3D, potrebbe erodere ulteriormente la dipendenza dall’industria manifatturiera a basso salario come motore di sviluppo del commercio e della finanza internazionali.

La fine del boom della Cina è un altro fattore di rallentamento della globalizzazione. L’evoluzione della Cina da produttore a basso costo a paese a medio reddito ha ridotto il suo vantaggio comparativo nel fornire al mondo manufatti a basso costo. Finora, tuttavia, nessun altro paese (ad esempio India, Brasile, Messico, Russia o Turchia) è riuscito a seguire le orme del Sol Levante. Solo il Vietnam e il Bangladesh hanno in parte riempito il vuoto creato dall’uscita della Cina dalla produzione di fascia bassa. In altre parole, deve ancora emergere un nuovo produttore a basso costo su larga scala e capace di sostituire la Cina come prossimo polo manifatturiero globale, e anche a ciò si deve il rallentamento della crescita del commercio globale in questo secolo.

Infine, il settore dei servizi finanziari è stato oggetto di ri-regolamentazione – dopo la crisi finanziaria globale – mediante misure globali ma anche distintamente nazionali che, insieme, hanno creato nuovi ostacoli ai flussi finanziari transfrontalieri, ad esempio introducendo per le banche elevati requisiti patrimoniali per le esposizioni creditizie più rischiose.

La globalizzazione frena, ma non è morta

Emergono tre conclusioni. In primo luogo, la globalizzazione frena ma non è morta. I dati sono chiari: è tramontata l’era della crescita transfrontaliera super-accelerata del commercio e dei flussi di capitale. Tuttavia, l’attività economica internazionale non ha registrato un calo generalizzato bensì, piuttosto, un rallentamento. In questo senso, non viviamo ancora una vera e propria de-globalizzazione.

In secondo luogo, tra i fattori responsabili della globalizzazione, a venire meno è l’impegno politico. Il populismo, il nazionalismo, la ri-regolamentazione finanziaria e le preoccupazioni per la sicurezza nazionale hanno sottratto all’economia il primato nelle relazioni internazionali. La colpa non è del progresso tecnologico né di una minore fame di utili e consumi. Il rallentamento della globalizzazione degli ultimi 15 anni è piuttosto ascrivibile alla ritrosia politica verso ulteriori liberalizzazioni e verso la promozione attiva di nuove aperture.

In terzo luogo, per quanto si tema l’eccessiva dipendenza dalla Cina o si discuta di riportare la produzione negli Stati Uniti o in Europa, la realtà è diversa. Il mondo non sta ancora riportando la regia della produzione all’interno dei confini nazionali. Di fronte all’incremento della domanda di beni, alla riapertura delle economie nel 2021 e all’inizio del 2022, le esportazioni cinesi hanno registrato un boom, dimostrando che le catene di approvvigionamento globali rimangono intatte e parte integrante del funzionamento dell’economia mondiale.

Allo stesso modo, è ancora presto per affermare che la regionalizzazione stia sostituendo la globalizzazione. Dal 2016 gli Stati Uniti applicano dazi ai paesi confinanti dell’USMCA (l’Accordo fra Stati Uniti, Messico e Canada che ha sostituito l’Accordo di libero scambio nordamericano) e all’Unione europea (UE). In quello stesso anno il Regno Unito ha scelto di uscire dall’UE. Che si tratti dell’USMCA, dell’UE o del Mercosur (il blocco commerciale sudamericano), oggi i passati successi nell’espansione dei legami commerciali regionali si scontrano con le barriere erette dal populismo che si oppone quasi a ogni forma di liberalizzazione del commercio.

Anche il Partenariato transpacifico (TPP), istituito per approfondire i legami tra i paesi dell’area del Pacifico, rimane sostanzialmente sospeso a seguito del ritiro degli Stati Uniti nel 2017 sotto l’amministrazione Trump e della grande riluttanza di molti dei restanti paesi del TPP ad accogliere la Cina tra i suoi membri. In poche parole, la regionalizzazione non sembra riuscire a sostituire con facilità la globalizzazione in crisi.

Ciò detto, annunciare la morte della globalizzazione è prematuro. Come già osservato in precedenza, la crescita del commercio globale frena da oltre un decennio ma senza affrettare il passo. Il sistema di produzione e commercio internazionale sembra orientato verso un sistema più resistente alle interruzioni delle forniture: si passa dal sistema “just in time” a quello alternativo del “just in case” che, comunque, è molto più efficiente rispetto all’approccio del “ogni paese per proprio conto”. È però vero che la globalizzazione prospera solo con il sostegno popolare, che è inequivocabilmente venuto a mancare. Per decifrare il reale orientamento della globalizzazione sarà fondamentale capire la direzione della politica mondiale.

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