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Il gioco fra prezzi e tassi che irretisce l’America

L'analisi di Alessandro Fugnoli, capo strategist dei fondi Kairos.

Se Rudolf von Havenstein, governatore della Reichsbank, avesse passato l’ultimo anno della sua vita a ripetere che l’inflazione tedesca partita nell’estate del 1922 era un fenomeno temporaneo, avrebbe detto una cosa corretta. Avrebbe anche fatto in tempo (morì il 20 novembre 1923) a vedere i primi effetti della stabilizzazione monetaria partita il 12 novembre con il divorzio tra Reichsbank e Tesoro e proseguita il 16 novembre con l’introduzione del nuovo marco, equivalente al vecchio ma con 12 zeri in meno.

L’iperinflazione tedesca durò solo 18 mesi e tutto tornò relativamente tranquillo nel 1924. Nel 1925 fu deciso un piano di ristoro per i creditori che avevano visto praticamente azzerato il valore dei loro attivi. Ai possessori di titoli di stato fu rimborsato il 2.5 per cento del nominale. Andò meglio ai mutuanti, per i quali fu stabilito un nuovo controvalore pari a un quarto di quello pattuito inizialmente. Andò benissimo ai mutuatari e ai debitori in generale, che poterono rimborsare, in termini reali, una frazione del dovuto.

Havenstein era stato costretto a stampare marchi-carta per acquistare i marchi-oro con i quali la Germania doveva pagare le riparazioni di guerra. L’economia tedesca, diceva, aveva comunque bisogno di più moneta, anche al netto delle riparazioni. Havenstein era influenzato dalle teorie cartaliste che circolavano in Germania già dal 1905, l’anno in cui fu pubblicata la Staatliche Theorie des Geldes di Georg Friedrich Knapp. La moneta, dicevano i cartalisti, non nasce come rimedio pratico alle scomodità del baratto, ma viene imposta dal sovrano. Alla moneta cartacea, il fiat money, il sovrano dà valore nel momento in cui la impone ai sudditi per il pagamento delle tasse.

La MMT discende dal cartalismo e si definisce neo-cartalista. Né il cartalismo né la MMT teorizzano apertamente l’inflazione, ma è connaturata in loro l’idea che la moneta, in quanto pura creatura giuridica, non ha niente di oggettivo (come invece accade nel metallismo) e può essere liberamente usata per conseguire obiettivi in ultima istanza politici. L’inflazione, e ancora di più l’iperinflazione, sono un abuso di questa libertà, che comunque rimane ampia.

Tornando ai tempi nostri, possiamo dire che l’inflazione, oltre un certo livello, è sempre temporanea. Quando questo livello viene superato, infatti, l’economia prima si indicizza e poi si dollarizza. In Argentina e in Turchia è consentito tenere conti in dollari per difendersi dall’inflazione nella valuta locale. Lo stato paga gli stipendi e accetta in pagamento le tasse nella valuta locale, ma permettendo ai residenti di detenere conti in dollari evita la fuga dei capitali. Nei paesi in cui detenere dollari è illegale, il dollaro è comunque misura di valore. Se vendo una casa in Venezuela, dove l’inflazione in bolivares è del 50 per cento al mese, il prezzo è fissato in dollari. Se verrò pagato tra un anno, il compratore mi darà valuta locale al cambio col dollaro del momento in cui salderà il debito. L’inflazione esiste quindi solo nella valuta locale. In dollari l’inflazione non esiste e ci può anche essere deflazione se l’economia, come generalmente accade nelle fasi di iperinflazione, è in recessione.

Il fatto che l’inflazione sia temporanea non significa però che sia innocua. In queste settimane circola molto l’idea dell’onda anomala di breve durata, passata la quale il mare ritornerà tranquillo. Tutto a posto, quindi, e non facciamoci distrarre dal 4.2 per cento di inflazione americana anno su anno. Se però anche avessimo la certezza che nei prossimi 12 mesi l’inflazione scenderà, poniamo, al 3, in capo a due anni avremo comunque perso, sui dollari, il 7 per cento del potere d’acquisto. E sarà un 7 per cento perso per sempre, impossibile da recuperare a meno che, negli anni successivi, i prezzi non scendano in valore assoluto di altrettanto.

Chi investe dovrà anche tenere conto della tenaglia costituita dall’effetto combinato dell’inflazione da una parte e dell’aumento dell’imposizione sui capital gain in discussione in molti paesi. Con un’inflazione al 5 e un’imposta complessiva al 50 si dovrebbe fare rendere il portafoglio del 10 per cento all’anno solo per mantenerne invariato il potere d’acquisto.

Ma quali sono le prospettive effettive dell’inflazione nel prossimo periodo? Con le strozzature nelle filiere dell’offerta e il rincaro delle materie prime possiamo dire che c’è ancora parecchia tensione da scaricare gradualmente a valle. Si pensi alle auto. Le riduzioni di produzione causate dalle difficoltà di approvvigionamento di semiconduttori stanno facendo salire velocemente le quotazioni dell’usato.

In teoria le imprese potrebbero assorbire l’aumento dei costi accettando una riduzione dei margini, ma la domanda, nelle economie che riaprono, è molto vivace. Le imprese, quindi, aumenteranno i loro prezzi di listino.

E l’inflazione salariale? Il dato molto deludente sui nuovi occupati negli Stati Uniti ha aperto un dibattito. Per alcuni è colpa delle imprese che non sono disposte a offrire di più per attrarre forza lavoro. Per altri è colpa dei sussidi di disoccupazione federali e statali che disincentivano la ricerca di un impiego, soprattutto per chi, tornando al lavoro, oltre a rinunciare ai sussidi dovrebbe anche pagare la benzina (rincarata) per il viaggio e la babysitter per i figli.

Per alcuni, quindi, i sussidi vanno ridotti subito (alcuni stati repubblicani lo stanno già facendo) ma per altri il permanere di un numero elevato di disoccupati potrebbe giustificare un loro ulteriore prolungamento, in modo da spingere le imprese ad aumentare le retribuzioni offerte. La questione, in pratica, è ancora aperta.

In Europa l’inflazione è ancora tranquilla. I sussidi di disoccupazione sono mediamente meno generosi e la riapertura è appena iniziata. Vedremo anche noi qualche pressione al rialzo nei prossimi mesi, ma in forma più limitata.

Dopo il brutto dato sull’inflazione americana le borse hanno reagito istintivamente con un ribasso. La relazione tra inflazione e borse non è però diretta, ma passa per i tassi. Storicamente l’inflazione che sale si porta dietro i tassi e, per via dei tassi che salgono, provoca una contrazione di multipli di borsa.

Se però i tassi non salgono, perché vengono tenuti fermi dalla banca centrale, non c’è ragione, al di là di un temporaneo malumore, per una discesa strutturale delle borse. La Fed, dal canto suo, sta facendo di tutto per trovare ragioni per non toccare non solo tassi, ma anche il livello degli acquisti di titoli, anche a costo di arrampicarsi sui vetri e invocare le varianti del virus che potrebbero farci precipitare di nuovo nella crisi.

Dal punto di vista delle borse, inoltre, è preferibile che le imprese scarichino a valle l’aumento dei loro costi (anche se questo provoca inflazione al consumo). L’alternativa, sacrificare i margini, sarebbe più penalizzante per le quotazioni dei titoli.

Più inflazione e tassi fermi dovrebbero fare scendere il dollaro. A frenare la discesa, tuttavia, sono l’attesa di un rialzo dei tassi americani anticipato a fine 2022 e l’idea che le misure fiscali e monetarie europee non sono molto meno espansive di quelle americane. La vera differenza, del resto, è tra America ed Europa da una parte e Cina dall’altra. La Cina è l’unica regione che sta adottando politiche ortodosse sia macro sia micro. I titoli decennali cinesi continuano a rendere più di tutti gli altri e sono gli unici che potranno offrire possibilità di capital gain nei prossimi mesi.

La crescita dell’inflazione ci indurrà a suggerire una riduzione dell’esposizione azionaria solo quando si porterà dietro i tassi o, quantomeno, la riduzione degli acquisti di titoli da parte delle banche centrali. Per ora è meglio rimanere investiti e sopportare senza troppe ansie la volatilità estiva.

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