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Cosa succede se gli hacker iraniani rispondono all’attacco Usa?

L'approfondimento di Umberto Rapetto

 

Giovedì scorso il Cyber Command americano ha attaccato l’Iran. E’ scoppiata una guerra e nessuno, al momento, si è accorto di nulla.

La cyberwar, come i conflitti basati sull’uso di armi batteriologiche, mostra i suoi effetti sempre un po’ in ritardo e probabilmente è ancora presto per scoprire le controindicazioni della manovra militare ordinata da Donald Trump.

L’operazione cibernetica ha preso di mira i radar e le batterie di missili, mandando in tilt la contraerea iraniana così da rispondere all’abbattimento del drone e dimostrare che la superiorità tecnologica statunitense non può certo essere scalfita da un fortuito colpo andato a segno. Il bombardamento digitale, motivato anche dai sospetti che sia stata Teheran ad organizzare gli attacchi alle petroliere nelle scorse settimane, ha centrato i sistemi elettronici iraniani accecandone la sensoristica e facendo fallire ogni tentativo di lancio di razzi. L’aggressione informatica ha anche azzoppato le risorse hi-tech (e la conseguente capacità operativa) dell’intelligence “persiana”, ma il successo dell’azione tattica non deve entusiasmare.

L’Iran può contare su formazioni di hacker distribuiti capillarmente sulla superficie del pianeta, notoriamente aggressivi e pronti ad assalire qualunque obiettivo.
Il pigiare il pulsante rosso per scatenare il conflitto cyber dovrebbe essere preceduto dalla medesima esitazione dinanzi al bottone che innesca una guerra nucleare. Il contesto non si presta ad esibizioni muscolari e a poco servono ostentazioni di invulnerabilità. Ricordiamo tutti come si muoveva sul ring l’invincibile Muhammad Alì, che danzava sinuoso dinanzi al contendente facendo mille sberleffi nella certezza di non dover temere nulla. Il 31 marzo del 1973, però, sale sul quadrato lo sconosciuto Ken Norton. Quel marinaio di Jacksonville non aveva nessuna possibilità di farcela ma un suo pugno spezzò la mascella al grande campione, detronizzando una icona del pugilato e pregiudicandone la carriera.

Dovremmo tenere a mente i tanti episodi che la storia e le tradizioni hanno portato fino ai giorni nostri. Da Davide e Golia al “Balilla” dei carugi genovesi, dovremmo aver imparato da tempo che giganti imperiosi ed imponenti eserciti possono essere sconfitti da un minuscolo e insignificante avversario.

L’Iranian Cyber Army è operativo da quindici anni e il suo palmares è tristemente ricco. I lupi solitari non mancano certo e il bersaglio a stelle e strisce richiama l’attenzione di tanti pirati informatici ben predisposti a mostrare la propria solidarietà a chi è finito nel mirino di Trump.

La “dipendenza” dal regolare funzionamento dei sistemi informatici e delle reti fa degli Stati Uniti un obiettivo particolarmente appetibile. Gli attacchi lamentati dagli USA negli anni scorsi sono da considerare piccole scaramucce. La reazione iraniana (e il discorso vale per qualunque Paese o schieramento che debba trovarsi sotto scacco) può tradursi in qualcosa di ben più grave che può affondare le infrastrutture critiche delle grandi Nazioni.

Energia, telecomunicazioni, trasporti, finanza e sanità hanno un ciclo biologico condizionato dalla buona salute di computer e reti telematiche. Virus e malware possono infettare le procedure di funzionamento, i “denial-of-service” possono paralizzare ogni attività: prima di attaccare sarebbe fondamentale leggere il “bugiardino” che non manca mai nelle confezioni di medicinali, prima di procedere con la “cura” di qualunque emergenza sarebbe opportuno valutare le avvertenze di possibili risvolti negativi.

Occorre blindare la propria architettura tecnologica e mettere in sicurezza gli aspetti problematici del vivere quotidiano. Cosa non facile, ma mandatoria.

Il non pensarci – cardine dell’odierno atteggiamento politico italiano, ad esempio – è irresponsabile. La tecnica dello struzzo non paga.

Se davvero è scoppiata la guerra, gli alleati devono cominciare ad immaginare un loro coinvolgimento. Una Caporetto virtuale non si scongiura con quattro slide o magari con una partita a “Cybercity Chronicles”.

C’è da augurarsi che nessuno creda che il videogame realizzato dal Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza sia il primo passo verso la protezione cibernetica del nostro Paese. La cyberwar, qualora nessuno se ne sia ancora accorto, è una cosa seria. Drammaticamente seria.

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