skip to Main Content

Theresa-May-Brexit

Vi spiego l’azzardo di May sulla Brexit

L'analisi dell'editorialista Guido Salerno Aletta

Finale di partita incandescente sulla Brexit. Può succedere tutto. A Londra, infatti, è scoppiata la guerriglia sulla bozza di accordo siglata con il negoziatore europeo. La premier Theresa May ha ripetuto lo stesso errore che commise mesi fa, quando forzò l’approvazione da parte del suo Gabinetto del Chequers Plan, il documento che aveva elaborato all’insaputa financo del ministro incaricato del dossier, David Davis. Il consenso non resse che poche ore: l’indomani si dimisero per protesta sia Davis che Boris Johnson, il ministro degli Esteri.

Stavolta la May ha sottoposto ai ministri il documento già concordato a livello tecnico, oltre cinquecento pagine tra articolato, allegati e annessi, presentandolo con la solita formula ultimativa: Buy or Die. L’accordo trovato mercoledì 14, dopo cinque ore di estenuanti discussioni, all’alba era già sfumato. Sono cominciate a fioccare le dimissioni: hanno sbattuto la porta il nuovo ministro incaricato di gestire le trattative con l’Ue, Dominic Raab, e la sua sottosegretaria Suella Braverman; poi è stata la volta di quello per l’Irlanda del Nord, Shailesh Vara, e infine di quella del Lavoro Ester McVey.

A Westminster, intanto, il leader della fronda dei Conservatori pro-Brexit, Jacob Rees-Mogg, ha cominciato a raccogliere altre firme per arrivare a un voto di sfiducia contro la premier: la soluzione concordata con Bruxelles è inaccettabile, e per l’Irlanda del Nord rappresenta una grave minaccia all’integrità del Regno Unito. Giovedì 15, poi, c’è stato addirittura chi ha accusato la premier britannica di pavidità nelle trattative, paragonando il suo comportamento a quello tenuto a Monaco nel 1938 da Neville Chamberlain, il premier britannico che non si oppose all’occupazione nazista dei Sudeti. La premier ha replicato con forza, assicurando che con questo accordo «la Gran Bretagna controllerà le proprie frontiere, tornerà sovrana dal punto di vista legislativo e uscirà sia dal mercato interno europeo sia dalla Unione doganale».

Comunque sia, la trappola tesa da Bruxelles per esasperare i conflitti interni alla Gran Bretagna ha funzionato alla perfezione. Il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk ha fatto finta di nulla, confermando per il 25 novembre la riunione in cui il testo concordato sarà portato all’approvazione. Altri leader, Angela Merkel ed Edouard Philippe, gongolano: «Non c’è niente da rinegoziare» ha affermato la Cancelliera tedesca, mettendo le mani avanti; secondo il primo ministro francese, ora i rischi di un no-deal nascono solo dalle incertezze politiche della Gran Bretagna. In queste condizioni, qualsiasi approvazione a Bruxelles sul testo finora concordato sarebbe velleitaria, vista la debolezza della May.

A Westminster sono pronti a stravolgerlo, aggiungendo incertezze a incertezze: il documento che verrà proposto dal governo per la Brexit sarà esaminato secondo le procedure ordinarie sia da parte dei Comuni che dei Lord, che prevedono la possibilità di emendamenti. È stato infatti escluso che si possa procedere con un voto di mera approvazione. Si è ribadito il principio, già affermato in precedenza, quando il governo aveva ritenuto di poter procedere autonomamente alla definizione dell’Accordo sulla Brexit, prescindendo da un voto parlamentare: queste sono le regole della democrazia rappresentativa.

L’incertezza e le divisioni di questi giorni si ritrovano pari pari negli slogan lanciati in passato: da «Brexit means Brexit» che preconizzava posizioni negoziali maschie, a «Brexit in name only», che sottolineava invece il rischio di un’uscita solo fittizia dall’Ue. E ancora, stando alle parole della May, si è andati dal «Meglio nessun accordo che un cattivo accordo», che sottendeva l’accettazione del rischio di caos determinato da un no-deal, alla recentissima posizione con cui aveva convinto i membri del suo gabinetto ad approvare il testo concordato con i negoziatore dell’Unione: «Meglio questo accordo che una no-Brexit». Sullo sfondo, c’è sempre un secondo referendum, per la «Brexin».

E soprattutto c’è chi punta su un processo di uscita talmente lungo da poter essere ribaltato nel maggio 2022, quando si terranno le prossime elezioni politiche secondo la loro naturale scadenza. O anche prima, in caso di una caduta rovinosa del governo in carica. Più che cambiare strategie, la May ha semplicemente subito la «questione irlandese», il cuneo usato per dividere il Regno Unito: uscire dall’Ue non significa solo uscire da un mercato interno ma soprattutto, se si vuole riconquistare autonomia nelle relazioni internazionali, uscire da un’Unione doganale. Per fare questo, deve però accettare una frontiera fisica tra l’Ulster e l’Eire, violando l’Accordo del Venerdì Santo che ha riportato la pace tra le due parti dell’Irlanda.

A Londra si sta combattendo, con alterne vicende, un conflitto ormai endemico tra coloro che rivendicano la sovranità nazionale e coloro che preferiscono una sua progressiva diluizione all’interno della Unione. Secondo i rispettivi detrattori, si combatte tra sovranisti e globalisti. C’è da ricordare che è stata Londra ad aver preceduto tutti, ivi compresi gli americani che ora tifano per Donald Trump. Molto prima del Gruppo di Visegrad, e con una determinazione che fa impallidire le pur estenuanti resistenze del governo italiano in carica rispetto alle pressioni della Commissione europea per modificare la politica di bilancio, fu il premier conservatore britannico David Cameron a pronunciare per primo nel 2013 le fatidiche parole: «Questa Europa non ci piace!». E fu lui stesso, disapprovando il Fiscal Compact nel 2015, ad aprire la seconda frattura insanabile con l’Ue, dopo la mancata adesione di Margaret Thatcher alla moneta unica. Sapeva costei che l’euro sarebbe stata una gabbia: voleva solo una moneta comune, un «Hard-Ecu», aggiuntiva rispetto a quelle nazionali.

L’indizione del referendum sulla Brexit, svoltosi nel giugno del 2016, non è stato altro che l’ultimo strappo, chissà se davvero definitivo. Prosegue intanto l’affievolimento delle istituzioni create nel secondo dopoguerra: l’Onu, il Wto, gli Accordi di Bretton Woods e il Fmi sono ferri vecchi. L’idea stessa di trasformare l’Esm in un Fondo monetario europeo dà il senso dello sbriciolamento di quell’assetto. La stessa costruzione di un esercito europeo, invocata all’unisono in questi giorni dal presidente francese Emmanuel Macron e dalla Merkel, che costituirebbe una necessaria alternativa alla Nato visto che non si può più appaltare agli Usa la sicurezza del nostro Continente, è un altro segnale di un sistema che va in pezzi. La particolare cautela dimostrata di recente da Theresa May riflette il timore che un no-deal provochi una crisi finanziaria internazionale. È una preoccupazione diffusa, ma esorcizzata. Alcuni cercano di cautelarsi tornando indietro rispetto al multilateralismo e al globalismo incontrollabile, altri invece rafforzando le misure di controllo per disinnescare i numerosi fattori di rischio, come il debito pubblico italiano.

Paradossalmente, qualcuno invoca la clava dei mercati, affinché portino lo spread sui nostri titoli di Stato a livelli insostenibili, provocando una crisi dapprima finanziaria e poi politica, al fine di sottometterci finalmente alla disciplina dell’Esm. Si comportano esattamente come i politici «sonnambuli» che condussero alla Prima Guerra Mondiale. Evocano, folli, l’intervento di forze senza volto, poi incontrollabili. A Londra, per rimettere insieme i cocci, ai Conservatori e al Dup, il Partito Unionista irlandese che sostiene con i suoi voti determinanti l’attuale governo, non resta che trovare un accordo politico su un documento di principi che la May dovrebbe condividere, e poi portarlo a Bruxelles per riaprire la negoziazione. Comunque, solo un voto di Westminster, che rinnovasse la fiducia al Governo di Theresa May, la legittimerebbe a rilanciare le trattative. La palla tornerebbe in gioco sul campo europeo, e così anche la responsabilità di un «no deal».

Disarcionare la Premier May comporta invece il rischio di nuove elezioni, con un possibile ribaltamento della maggioranza parlamentare a favore dei Laburisti di Jeremy Corbyn e, chissà, anche di una piattaforma molto più pro-europea in vista di un nuovo referendum. A Londra, si sta decidendo il futuro. Fino alle 23 del 29 marzo 2019, ora e data della uscita formale della Gran Bretagna dall’Unione, ci saranno ancora chissà quante sorprese.

 

Articolo pubblicato su MF/Milano Finanza

Back To Top