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Bolivia

Vi racconto la campagna elettorale in Argentina per le presidenziali della Bolivia

La rinnovata importanza strategica della Bolivia tra golpe militari e nuove elezioni. L'approfondimento di Livio Zanotti

E’ a dir poco insolito – dunque una notizia (non buona per la democrazia) -, che la campagna elettorale di un Paese cominci in un altro, ancorché limitrofo. E’ segno inequivoco di tempi turbolenti e sanguinosi. Come questi che vive la Bolivia, da sempre spaccata tra la maggioranza autoctona e la minoranza bianca. Dal novembre scorso precipitata in una situazione convulsa che ha i caratteri dello stato d’emergenza: sospesi i diritti costituzionali, l’esercito controlla il paese, la polizia arresta funzionari del precedente governo e reprime anche uccidendo i militanti del Movimento al Socialismo, il MAS di Evo Morales. In disputa, sostanzialmente, è il modello economico del paese e il suo controllo.

Per contrasto, la straordinaria e affollatissima manifestazione avviene nel più bianco dei Paesi sudamericani, tuttavia meticcio nella realtà etnica e sociale grazie allo straordinario melting-pot che lo distingue, il meglio riuscito del continente. Qui, in Argentina, nella zona sud della capitale in cui l’argentinismo europeizzante prende vistosamente i variopinti colori dei popoli originari, è stata aperta formalmente la campagna per le elezioni presidenziali boliviane, fissate per il prossimo 3 maggio dall’attuale governo de facto imposto dal golpe che ha costretto alla fuga il controverso presidente del pur inconfutabile miracolo economico e sociale, il cocalero aymara Evo Morales.

Sono 350mila i boliviani, quasi tutti indios, residenti in Argentina. Dei centomila che lo scorso 20 ottobre hanno partecipato alle elezioni poi contestate dall’opposizione, l’82 per cento hanno votato per Evo Morales. Per il competitore, a sua volta già capo dello stato (2003-2005), Carlos Mesa, conservatore intransigente, soltanto l’8,7. In oltre 35mila si sono riuniti nuovamente per ascoltare e sostenere Evo nel quattordicesimo anniversario della fondazione dello stato plurinazionale di Bolivia, che l’ex presidente ha fatto coincidere con la presentazione dei candidati del MAS alla prossima consultazione. E’ stata una festa, sgargiante e sonora, ma anche un indicazione di forza.

Escluso dai diritti elettorali anche passivi insieme all’ideologo ed ex vice Alvaro Garcia Lineras, Evo ha designato a sostituirlo Luis Arce, già suo ministro dell’Economia, affermando che i sondaggi gli attribuiscono attualmente il 79 per cento dei suffragi: “Tra due mesi riconquisteremo con mezzi democratici il governo che ci hanno sottratto con la forza. Tutti vedranno che abbiamo archiviato per sempre lo stato coloniale, l’abbiamo sostituito con il nuovo stato plurinazionale in cui lo sviluppo è aperto a tutti i cittadini, tutti con gli stessi diritti. Tutti vedranno da che parte sta l’illegalità”. Migliaia di wiphala, la bandiera arcobaleno che simboleggia la multietnicità boliviana, ondeggiano alle sue parole, potenti i cori di approvazione.

L’ottimismo di Evo e l’allegria della folla appena sbiadiscono però le violenze dello scontro in atto nel vicino paese andino e le incognite che ne derivano. Dal 20 gennaio, il giorno successivo a quello in cui è divenuto noto che sarebbe stato candidato alla Presidenza, Luis Arce è indagato dalla Procura Generale di La Paz per presunti ammanchi contabili insieme a numerosi altri dirigenti del MAS, la cui compattezza è posta a dura prova della repressione. L’ex ministro aveva in precedenza accusato l’autoproclamata presidente Janine Añez di privatizzare illegalmente pezzi di economia nazionale in favore di pochi gruppi oligarchici, d’intesa con potenti soci stranieri.

La trasformazione dei paradigmi produttivi mondiali dell’industria e la conseguente transizione energetica verso nuove fonti hanno valorizzato ulteriormente la Bolivia in quanto regione d’interesse geopolitico strategico. Tra sue ricchezze minerarie c’è infatti il litio (oltre al cobalto, gas, etc.), da cui ricavare carbonato e cloruro di potassio: il salar de Uyuni, incrostato in una zona andina di facile accesso, viene ritenuto il maggior giacimento esistente: 21 milioni di tonnellate, un impressionante lago di sale nella provincia di Potosì che costituisce anche un’importante attrazione turistica. E alla cui commercializzazione del suo metallo alcalino guardano pertanto tutte le grandi compagnie che fabbricano batterie elettriche, il business da cui dipende tra l’altro il futuro dell’industria automobilistica.

Il governo di Morales ne aveva affidato lo sfruttamento a una società nazionale costituita insieme al gruppo tedesco ACI Systems GmbH, che avrebbe costruito una fabbrica per produrre batterie in Bolivia. Malgrado l’attiva, anzi accanita opposizione dei comitati civici della provincia interessata (Potosì), un’organizzazione corporativa dominata da gruppi economici privati locali legati tradizionalmente a imprese statunitensi e abituati a ricevere royalties in cambio delle concessioni di materie prime di proprietà dello stato. Già in passato i comitati di Potosì si erano scontrati duramente con Morales, che stavolta con l’infiammarsi della controversia decise di soprassedere e rinviare a miglior momento la concretizzazione dell’iniziativa formalmente sottoscritta.

Il tentativo di guadagnare tempo in vista della rielezione che avrebbe dovuto confermargli piena autorità politica, non gli è però riuscito. La stessa sua candidatura, ottenuta attraverso una forzatura costituzionale, e un risultato alle urne che avrebbe dovuto essere trionfale per restare al sicuro dalle previste contestazioni dell’opposizione, hanno aperto il varco al colpo di stato. Le Forze Armate, nella persona del comandante in capo dell’Esercito, si sono appellate alla necessità di proteggere la sicurezza nazionale per consigliare a Morales di salvare la vita abbandonando in fretta il paese (di cui formalmente era ancora il presidente, in quanto il suo precedente mandato sarebbe scaduto alcune settimane dopo).

Janine Añez, che lo ha sostituito contro ogni regola costituzionale, ha dichiarato di avere assunto la presidenza provvisoria solo per indire nuove elezioni. Ma sta invece ampiamente legiferando per decreto e ha annunciato tra l’altro la revoca del contratto con la ACI Systems GmbH, provocando l’immediata reazione dell’ambasciatore della Germania Federale a La Paz. La vicenda sembra destinata a finire nei tribunali internazionali. Riduzione giudiziaria d’una pagina di modernizzazione d’un paese socialmente ed economicamente arretrato, tentata attraverso e per mano di culture etniche confinate per secoli tra le nebbie degli altopiani andini.

La stessa spinta senza precedenti impressa allo sviluppo della Bolivia da Evo Morales ha contribuito a porre in discussione il suo titanismo di governo. Egli è riuscito ad aprire la porta del sistema produzione-consumo a una parte molto rilevante delle masse autoctone che ne erano escluse da sempre. E lo ha fatto anche con forme eccentriche fino al surrealismo, ma sempre attraverso il recupero e la legittimazione delle loro culture originarie. Ha cioè saputo evitare il corto circuito tra politica ed economia, esaltandone invece la possibile complementarietà. Un risultato non proprio trascurabile per un ex dirigente sindacale ai margini della politica nazionale, tacciato d’incompetenza e vanità.

Sostanziando con una ben maggiore partecipazione popolare la esangue democrazia boliviana, ne ha rivitalizzato l’impianto sociale, i principi fondamentali, ed anche le procedure, pur senza evitare impronte personalistiche risultate infine un elemento di debolezza dell’intero processo. Un temperamento forte e audace come quello mostrato da Morales, convinto (forse neppure del tutto a torto) di non essere utilmente sostituibile, era destinato a surriscaldare le istituzioni e favorire le opposizioni interne e internazionali pregiudizialmente in attesa dell’occasione per mandarle in corto circuito. Il limite della democrazia è infatti l’eccezionalità, che purtuttavia caratterizza molte situazioni latinoamericane e le pone di fronte ai rischi di dover risolvere questa contraddizione tra modernizzazione ed autoritarismi.

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