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Vi racconto il Parlamento ingolfato di decreti

Che cosa succede in Parlamento con il profluvio della decretazione d'urgenza. L'approfondimento di Giuseppe Liturri

 

Sono passati circa quattro mesi dal 23 luglio. Quel giorno il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, intinse la penna nella soda caustica prima di vergare una lettera ai Presidenti delle Camere per invitarli a “un ricorso più razionale e disciplinato alla decretazione d’urgenza”.

Da allora sulle Camere si è scatenato un vero e proprio diluvio normativo. Proprio in quello stesso giorno arrivò il decreto legge 105 che aprì la lunga sequenza di decreti relativi alla disciplina del green pass. L’ultimo è arrivato giovedì 11, raggiungendo così quattordici decreti legge, di cui sette convertiti, uno decaduto e sei in attesa di conversione. Quasi uno alla settimana, agosto compreso. Ad essi si aggiungono i disegni di legge delega sulla riforma fiscale, sulla riforma del processo civile (approvato al Senato e in discussione alla Camera), sulla riforma della disabilità e sulla concorrenza (ancora in transito tra Ragioneria e Quirinale). Oltre alla riforma del processo penale che è già legge dal 27 settembre. Il tutto in piena sessione di esame della legge di bilancio 2022, presentata al Senato solo il 16 novembre, con notevole ritardo rispetto al previsto termine del 20 ottobre.

Nei prossimi 40 giorni, Natale e Santo Stefano compresi, le Camere dovranno convertire 6 decreti legge, approvare la legge di bilancio 2022 e altri quattro disegni di legge di delega al governo su materie molto importanti. Tra un panettone e uno spumante i parlamentari dovranno trovare anche il tempo per approvare la legge di ratifica del Trattato sulla riforma del Mes e si vedranno recapitare, come ogni anno prima del brindisi di Capodanno, anche l’immancabile decreto legge “mille proroghe”.

Ma il problema, già di per sé enorme, non è tanto il numero dei provvedimenti quanto le modalità con cui sono presentati, discussi e approvati. Che furono proprio oggetto delle doglianze estive di Mattarella, in cui chiedeva di “modificare l’attuale tendenza. I decreti-legge devono presentare ab origine un oggetto il più possibile definito e circoscritto per materia […] l’attività emendativa dovrà essere limitata dalla materia ovvero dalla finalità originariamente oggetto del provvedimento, come definite dal Governo. La confluenza di un decreto-legge in un altro provvedimento d’urgenza […] dovrà verificarsi solo in casi eccezionali e con modalità tali da non pregiudicarne l’esame parlamentare. […] Anche per rimuovere la abituale prassi, ormai generalizzata, che consiste nella presentazione di maxi emendamenti sui quali porre la questione di fiducia”. Per chiudere, Mattarella invitò “Parlamento e Governo a riconsiderare le modalità di esercizio della decretazione d’urgenza, con l’intento di ovviare ai profili critici […] che hanno ormai assunto dimensioni e prodotto effetti difficilmente sostenibili” e promise che avrebbe valutato “l’eventuale ricorso alla facoltà prevista dall’articolo 74 (rinvio alle Camere delle leggi di conversione, nda) della Costituzione nei confronti di leggi di conversione di decreti-legge caratterizzati da gravi anomalie che mi venissero sottoposte”.

Parole che sono state trascinate via come turaccioli sulla battigia all’arrivo dello tsunami normativo a cavallo tra estate e autunno. Si è perso il conto dei voti di fiducia su maxi emendamenti del governo e la seconda lettura è di fatto scomparsa.

Valga, per tutti, la sorte del disegno di legge delega per la riforma del processo civile. Approvato in prima lettura al Senato, è ora all’esame della Camera, dove in Commissione Giustizia sono stati bocciati tutti gli emendamenti. Per il semplice motivo che non ci sarebbe tempo per fare tornare in terza lettura al Senato il testo così emendato. È mai possibile che una riforma destinata ad avere così profondi e duraturi effetti nella vita dei cittadini, sia liquidata senza una discussione ampia e il contributo dei deputati?

Il totale disinteresse del governo per le parole del Presidente è ben documentato negli atti del Comitato per la legislazione presso la Camera – organo di dieci deputati oggi presieduto da Alessio Butti di FdI, che ha il ruolo di emettere un parere sulla specificità, omogeneità e limiti di contenuto di tutti i decreti legge – che nei pareri emessi nelle ultime settimane ha dovuto denunciare lo svuotamento della funzione parlamentare.

In particolare, nell’ultima seduta di mercoledì 17 il Comitato ha esaminato il Decreto Legge 152 sull’attuazione del PNRR. Una valanga di 52 articoli e 180 commi tutti finalizzati a “mettere la bandierina” sui 51 obiettivi da conseguire entro il 31 dicembre per ricevere la prima rata (dopo l’acconto di agosto) del PNRR e gli strali verso Palazzo Chigi sono stati eccezionalmente severi e numerosi.

Si parte dalla mancanza dei requisiti di urgenza, mancanti quando si prevede l’adozione di un decreto di attuazione del Ministro del turismo addirittura “entro il 31 marzo 2025”. Il Comitato è costretto ad ammettere che “si tratta di misure per le quali la decisione del Consiglio UE di approvazione del PNRR italiano prevede come termine per l’approvazione il dicembre 2021” e quindi il fine giustifica i mezzi del tutto inappropriati. Ma dubbi sorgono anche sulla loro “effettiva idoneità a raggiungere gli obiettivi previsti dalla decisione del Consiglio UE” e i parlamentari affondano il colpo chiedendo “una riflessione sull’opportunità, con riferimento al PNRR, di una programmazione legislativa condivisa tra Parlamento e Governo che eviti in futuro di avvicinarsi alle scadenze previste dal PNRR con un numero significativo di provvedimenti legislativi ancora da approvare, il che rende inevitabile, come nel caso in esame, il ricorso a decreti-legge di ampie dimensioni, con possibile pregiudizio di un’adeguata istruttoria legislativa”. Ben consapevoli che questa situazione rischia di ripetersi per i prossimi 9 semestri, il Comitato chiede che il Parlamento abbia almeno il tempo per leggere ciò che vota. Da sottolineare anche l’invito a “evitare un’espansione al di là del suo ambito proprio della specifica tipologia di poteri sostitutivi previsti per la realizzazione del PNRR”. In sostanza, dal Comitato fanno sapere a Palazzo Chigi che non si può votare sotto la minaccia “o fate come diciamo noi, o facciamo direttamente noi”.

L’allarme è trasversale tra tutti i gruppi politici presenti nel Comitato e perfino l’On. Stefano Ceccanti del PD ha denunciato “il monocameralismo alternato che sembra essersi affermato in via di fatto”.

A questo proposito abbiamo raccolto l’appassionato j’accuse dell’On. Maura Tomasi della Lega, già presidente del Comitato, che non ha esitato a parlare di “esproprio della funzione legislativa del Parlamento da parte del Governo”. In particolare, “con il governo Draghi si è accentuata fino a divenire insostenibile la tendenza a presentare decreti legge a distanza ravvicinata e assistere – per impedire una discussione che prolungherebbe i tempi e ne metterebbe a rischio la conversione – a una abnorme dilatazione dei tempi di esame da parte del ramo del Parlamento che li riceve in prima lettura, che si conclude sempre a ridosso della scadenza dei 60 giorni per la conversione, lasciando così all’altro ramo solo pochi giorni nei quali è materialmente impossibile anche la mera lettura dei testi”. Ha aggiunto che “poteva tollerarsi obtorto collo tale modo di procedere in materia sanitaria, ma ritrovarsi ad analizzare – nelle stesse condizioni di emergenza – le scelte del PNRR che incideranno sul futuro del nostro Paese per il prossimo decennio e oltre, è semplicemente incostituzionale”. Quali i rimedi, allora? “Fermatevi” conclude la Tomasi, che vede due possibilità: rendere vincolante il parere del Comitato sui decreti o auspicare che Mattarella eserciti il rifiuto di promulgare una legge, rinviandola alla Camere. Un gesto simbolico ma grave che egli stesso ha minacciato appena 4 mesi fa.

In assenza di quest’iniziativa, aggiungiamo noi, le Camere, esattamente 99 anni dopo, saranno state davvero ridotte a “un bivacco di manipoli” ed allora è il caso di citare come l’onorevole socialista Filippo Turati, il giorno dopo, al famoso “discorso del bivacco” pronunciato da Mussolini il 16 novembre 1922: «[…] La Camera non è chiamata a discutere e a deliberare la fiducia; è chiamata a darla; e, se non la dà, il Governo se la prende. È insomma la marcia su Roma, che per voi è cagione di onore, la quale prosegue, in redingote inappuntabile, dentro il Parlamento. Ora, che fiducia può accordare una Camera in queste condizioni? Una Camera di morti, di imbalsamati, come già fu diagnosticata dai medici del quarto potere? […] Si ebbe l’impressione di un’ora inverosimile, di un’ora tolta dalle fiabe, dalle leggende; quasi direi un’ora gaia dopo che, dicevo, il nuovo Presidente del Consiglio vi aveva parlato col frustino in mano, come nel circo un domatore di belve – oh! Belve, d’altronde, deh quanto narcotizzate! – e lo spettacolo offerto delle groppe offerte allo scudiscio e del ringraziamento di plausi ad ogni nerbata […]»

Per poi chiudere in questo modo: «[…] e voi avete molta fretta. […] Chiedete i pieni poteri […] anche in materia tributaria; il che significa che abolite il Parlamento, anche se lo lasciate sussistere, come uno scenario dipinto, per il vostro comodo. Gli chiedete di svenarsi. Vi obbedirà […]».

Siamo convinti che molti parlamentari, almeno in privato, sottoscriverebbero buona parte di queste affermazioni anche oggi.

(versione ampliata e aggiornata di un articolo pubblicato sul quotidiano La Verità)

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