skip to Main Content

Giorgetti

Vi racconto i bluff di Conte con il centrodestra

Gli auspici del Quirinale sulla concordia, le disponibilità del centrodestra alla cabina di regia nazionale e l'indifferenza del premier Conte. I Graffi di Damato

Ah, potere entrare come una mosca, peraltro fuori stagione, nello studio del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e ascoltarne gli sfoghi col segretario generale del Quirinale, Ugo Zampetti, o col suo consigliere, amico e direttore dell’ufficio stampa, Giovanni Grasso, o entrambi: tutti alle prese con notizie, retroscena e quant’altro sulle tensioni nella maggioranza e nel governo che hanno preceduto, accompagnato e seguito il varo, da parte del Consiglio dei Ministri, del provvedimento a favore dei crediti necessari alle imprese danneggiate dall’emergenza del coronavirus.

Non che al Quirinale, sia chiaro, non sapessero di quel che era bollito nella pentola della maggioranza giallorossa, perché sul colle più alto di Roma ci sono, per antiche tradizioni, antenne  attrezzatissime per captare i segnali della politica: sia di quella con la maiuscola, pur ridottasi via via da qualche decennio a questa parte, sia di quella con la minuscola, di gran moda nella seconda e forse ancora di più in questa incipiente terza Repubblica.

Questa volta, tuttavia, credo, che i giornali tra cronache e retroscena abbiano rivelato, a proposito delle tensioni nella maggioranza, più di quanto non sapessero già sul colle, con quella strana pretesa dei due maggiori partiti della coalizione di governo di controllare “la gestione” — parola del pur paludato notista del Corriere della Sera e mio carissimo amico Massimo Franco — dei crediti alle imprese. Che ingenuamente si potrebbe ritenere di competenza esclusiva o prevalente delle banche erogatrici dei prestiti, sia pure garantii in tutto o in parte, direttamente o indirettamente, dallo Stato.

Al netto comunque di queste ed altre osservazioni che potrebbero essere formulate sulle tensioni riemerse nella e dalla maggioranza, se mai fossero state davvero sopite all’insorgenza della pandemia virale, intervenuta tra voci e manovre di piazza, strade, stradine e vicoli su quel famoso “terzo governo Conte” sfuggito come una battuta al portavoce addirittura del presidente del Consiglio; al netto, dicevo, di queste ed altre osservazioni, mi chiedo che senso abbia la pur faticosa concessione fatta da Conte in persona al capo dello Stato a coinvolgere le opposizioni nella gestione — stavolta a proposito, e non a sproposito — di un passaggio così drammatico della storia del Paese.

Gli incontri, confronti e come altro vogliamo chiamarli fra il governo e le opposizioni, a Palazzo Chigi e dintorni, col rispetto di tutte le distanze sanitarie di sicurezza, e sempre seguiti dalle dichiarazioni dei delegati del centrodestra a microfoni e telecamere spiegate in piazza Colonna, ci sono stati indubbiamente. Ma dubito che siano andati oltre ”il cortese ascolto” lamentato da Matteo Salvini in veste di “capitano”, questa volta, dell’opposizione.

D’altronde, per confrontarsi davvero con l’opposizione una maggioranza — questa giallorossa, condotta da Conte dopo averne guidato una di segno opposto sino all’estate scorsa, o un’altra di qualsiasi colore e da chiunque diretta, fosse pure un Mosè prestatoci per qualche tempo dal buon Dio — dovrebbe prima chiarirsi e compattarsi all’interno. Sennò il confronto va a farsi benedire, anzi maledire, e magari tradursi persino in un aumento della confusione, con intrecci perversi, sotterranei o visibili, fra parti della maggioranza e parti dell’opposizione.

Ciò accadde, del resto, ai vecchi tempi della cosiddetta prima Repubblica, quando il centro-sinistra faticosamente preparato prima da Amintore Fanfani e poi da Aldo Moro perse la famosa “delimitazione della maggioranza a sinistra” — non a caso nell’anno passato alla storia come quello della contestazione, il 1968 — e si aprì all’opposizione comunista per quella edizione che l’allora segretario della Dc Mariano Rumor, prima di approdare a Palazzo Chigi o proprio per approdarvi, definì  “più coraggiosa e incisiva” dell’alleanza di governo fra democristiani, socialisti, socialdemocratici e repubblicani.

Da interlocutori i comunisti, bravi d’altronde com’erano, diventarono registi, insidiando i governi o alcuni dei partiti che li componevano, e spingendo per crisi in direzione di equilibri che il socialista Francesco De Martino definiva “più avanzati”: tanto avanzati da sfociare in un governo monocolore democristiano, guidato da un uomo che certamente di sinistra non era, come Giulio Andreotti, ma appoggiato esternamente dagli ex alleati e dai comunisti.

Prego Salvini, se dovesse capitargli di leggermi, di non montarsi la testa e di non pensare di poter ripetere, da destra, l’impresa compiuta allora a sinistra da Enrico Berlinguer. Adesso anche lui  deve fare i conti con questa curiosa stagione virale  della domenica delle Palme senza palme e di una Pasqua che fra qualche giorno non ci farà purtroppo uscire automaticamente dalla Quaresima.

Back To Top