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Spagna Sahel

Come sta davvero la Spagna?

Lo stato dell'economia spagnolo secondo l'editorialista Guido Salerno Aletta

 

La Spagna torna alle urne, per la terza volta in quattro anni, con le elezioni politiche già fissate per il prossimo 28 aprile. Il governo presieduto da Pedro Sànchez, leader del Partito socialista spagnolo (PSOE), si è dimesso dopo la bocciatura del bilancio per il 2019 da parte delle Cortes. Fosse accaduto in Italia, avremmo visto lo spread sul debito pubblico schizzare alle stelle: per Madrid, invece, tutto tace. E ci sono ben serie ragioni per mettere la sordina.

Per l’intanto, i fatti. Il 13 febbraio scorso, l’eterogenea maggioranza che sosteneva il Premier Sanchez, composta dal raggruppamento di partiti di sinistra Unitos Podemos (UP), e dai rappresentanti di due partiti indipendentisti catalani, la Esquerra Republicana de Catalunya (ERC) ed il Partido Demócrata Europeo Catalán (PDeCAT) è andata in frantumi, ma per ragioni che nulla avevano a che fare con il contenuto della manovra: questi ultimi pretendevano che Sánchez, in cambio del loro voto favorevole, avviasse i negoziati che avrebbero dovuto portare alla convocazione di un referendum sull’indipendenza della Catalogna. Una richiesta irricevibile, una provocazione bella e buona.

Il Premier Sànchez ha chiesto di andare alle urne, stretto in una tenaglia. Da una parte c’è stata la forzatura dei Catalani, che si fa risalire al ritorno sulla scena sin dal luglio scorso dell’ex Presidente della Generalitad di Barcellona, Carles Puigdemont: costui ha infatti beneficiato del rifiuto da parte della magistratura tedesca di concederne l’estradizione in Spagna, per rispondere alla accusa di attentato alla unità nazionale che gli era stata mossa dal Tribunale Supremo di Madrid. Dall’altra parte, la rinnovata richiesta di autonomia da parte della Catalogna, che era già sfociata nella dichiarazione di indipendenza da parte di Puigdemon, e che è stata poi soffocata con la forza dal governo di Madrid, è un pericolo per la unità nazionale spagnola: per reazione, ha dato luogo ad una nuova formazione di estrema destra, identitaria e sovranista, Vox, contrarissima a qualsiasi concessione nei confronti di Barcellona, con un consenso per ora concentrato nelle aree più povere della Spagna Il suo pur limitato successo elettorale, visto che a dicembre in Andalusia ha raccolto appena il 10% dei voti, è stato sufficiente per dare vita ad una inedita maggioranza di destra, composta da Vox, dai Popolari e dai liberali di Ciutadanos.

I sondaggi relativi alle prossime elezioni politiche non forniscono nessun pronostico certo, né è facile prevedere che tipo di alleanze parlamentari potrebbero emergere, se fondate ancora sulla contrapposizione tra schieramenti di centrodestra e centrosinistra. Mentre i Socialisti guidati da Sanchez sono dati in crescita, i Popolari sarebbero in caduta per via della erosione di voti da parte di Vox. Ed ancora, mentre Ciutadanos guadagnerebbe voti, Unitos Podemos ne perderebbe: c’è un generale rimescolamento di carte, sia a destra che a sinistra.
Dal punto di vista economico e finanziario, la situazione della Spagna è molto più precaria di quanto non si dia a vedere. Ci si occupa sempre e solo del bilancio e del debito pubblico e non della situazione complessiva di Un Paese: questo è il vizio di origine del Trattato di Maastricht, aggravato dal Fiscal Compact. La moneta unica, per di più, ha nascoso e continua a celare squilibri enormi, che il mantenimento delle valute nazionali avrebbe immediatamente palesato.

Il caso della Spagna è emblematico: tra il 2000 ed il 2008, mentre il pil reale cresceva del 28,9% ed il debito pubblico crollava passando dal 59,9 al 39,8 % del pil, la bilancia dei pagamenti correnti accumulava passivi pari al 46 per cento del pil e l’indebitamento dei privati schizzava dal 122,3 al 219,5 % del pil. Squilibri folli, nel tripudio generale.

Non basta. All’inizio del 2001, data di entrata in circolazione dell’euro, la posizione finanziaria netta della Spagna era complessivamente passiva per 225 miliardi di euro, un ammontare pari al 34,8% del pil. Un passivo già consistente, visto che sfiorava già la soglia del 35% che viene considerata come squilibrio macroeconomico rilevante da parte della Unione europea. Nel dicembre 2009, la posizione netta era arrivata a -1.009 miliardi di euro, pari al 93,5% del pil. A settembre scorso, il passivo si era ridotto, ma di una inezia, a 965 miliardi di euro, pari all’86,5% del pil. Alla stessa data, i soli debiti netti di portafoglio della Spagna verso l’estero ammontavano a 525 miliardi di euro, una somma pari alla metà del pil. La Spagna è oberata di debiti verso l’estero: i creditori non hanno nessuna voglia di destabilizzarla.

Si è maramaldeggiato solo con la povera Grecia, schiacciata dal medesimo meccanismo. Fra il 2000 ed il 2007, il suo pil crebbe del 32,4% in termini reali; ma nel frattempo la sua bilancia dei pagamenti aveva accumulato un deficit pari al 67% del pil, mentre il debito dei privati era esploso passando dal 55,4 al 118,4 % del pil. Per ogni euro di pil in più, ce n’erano stati due di squilibrio sull’estero ed altrettanti di debito.

Non è acqua passata, perché anche il debito estero greco è imponente: una questione di cui non si parla.

Nell’ambito europeo, le pesantissime passività estere della Spagna e della Grecia non rappresentano un caso isolato: nella classifica mondiale dei Paesi che a fine 2017 avevano la peggiore posizione finanziaria netta, calcolata in percentuale sul pil, troviamo, a partire dal fondo: Islanda (-398%), Irlanda (-185%), Grecia (-135%), Cipro (-125%), Portogallo (-105%), Spagna (-81%), Croazia (-71%), Nuova Zelanda (-65%), Polonia (-62%), Ungheria (-59%), Lettonia (-58%), Slovacchia (-58%). Ben 10 dei 12 Paesi messi peggio al mondo sono aderenti all’Unione Europea. Basta guardare in alto, nella classifica, per capire come sono andate le cose: la Germania campeggia per saldo attivo (+54%), mentre anche la Francia traccheggia (-16%). La vera sorpresa è l’Italia, che ha ridotto costantemente le passività nette sull’estero: rispetto ai 109 miliardi di euro del 2017 (-6,3% del pil), alla fine del 2018 si sono ridotte a 55 miliardi (-3,1%).

Meglio parlare solo di deficit e di debiti pubblici, come fa la Commissione europea. A fine novembre, si è dimostrata ancora una volta straordinariamente comprensiva nei confronti del governo spagnolo, nonostante la sua manovra di bilancio fosse tutta impostata sul binomio “tassa & spendi”: per il 2019, si prevedevano nuove entrate, stimate pari al +0,6% del pil, e maggiori spese valutate nel +0.2%, con la conseguente riduzione del deficit dello 0,4%. Figuravano un aumento della tassazione diretta sui profitti delle imprese, la introduzione di nuove tasse sulle transazioni finanziarie e sulle attività digitali, insieme a misure volte a contrastare le frodi fiscali. Si prevedeva anche un incremento delle entrate contributive per via dell’aumento del salario minimo. Tra le misure di spesa: indicizzazione delle pensioni ai prezzi al consumo del 2018 e del 2019; incrementi delle pensioni minime e di quelle integrate al minimo; maggiori spese nel settore dell’istruzione, della assistenza sociale ed a favore della R&S. La Commissione aveva stimato diversamente l’impatto macro, considerando un +0.4% del pil per le entrate ed un +0.3% per le spese, con la conseguente riduzione del deficit allo 0.1%.

Guanti di velluto anche per quanto riguarda la riduzione del debito pubblico. Dopo aver ricordato che secondo il governo spagnolo il progetto di bilancio avrebbe comportato una riduzione del rapporto sul pil dal 97% del 2018 al 95.5% del 2019, la Commissione ha rettificato anche questa riduzione, portandola al 96.2%. Si è quindi limitata a rilevare che non ci si attendono sufficienti progressi, anche considerando che è previsto un miglioramento strutturale del bilancio pari allo 0.6% del pil. In conclusione, il piano finanziario della Spagna è a rischio di non conformità rispetto alle previsioni del Patto di Stabilità e Crescita per quanto riguarda l’aggiustamento verso l’obiettivo di medio termine: poiché non si registrano sufficienti progressi sul versante della riduzione del debito, ha invitato il governo spagnolo ad adottare le necessarie misure nel corso dell’anno. Baci ed abbracci.

Se la Spagna avesse mantenuto la peseta, tutti si sarebbero tempestivamente preoccupati degli squilibri accumulati dalla sua bilancia dei pagamenti correnti, e delle crescenti passività finanziarie sull’estero: il rischio di cambio avrebbe agito da freno. Non lo immaginavano proprio, gli spagnoli così entusiasti di aderire alla moneta unica tra i primi, trascinando l’Italia, il disastro a cui andavano incontro. Peggio di una guerra: hanno debiti che non ripagheranno mai. Nel silenzio generale, sotto la mantiglia dell’euro, si nascondono macerie enormi.

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