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Droni Iraniani

Tutte le capriole dell’America sui talebani in Afghanistan

Il corsivo di Teo Dalavecuras

 

Vista da fuori, cioè nel modo più superficiale possibile, la ritirata delle forze statunitensi e alleate dall’Afghanistan ha qualcosa di mesto (e anche di sinistro: la frettolosa chiusura di molte rappresentanze diplomatiche ricorda ciò che avvenne a Damasco verso la fine del 2011 e, considerato quanto accaduto in Siria nei successivi dieci anni, non promette niente di buono, quanto meno dal punto di vista europeo, ammesso e non concesso che, da qualche parte, siffatto punto di vista si trovi). Anche questa volta la Turchia di Erdogan si prepara a giocare un ruolo importante e ha già “convocato” i Talibani, ai quali è legata dalla comune fede islamica tradotta in mistica del potere.

Di certo, la “vendita” di questa ritirata all’opinione pubblica internazionale è poco convincente, nonostante la presa diretta degli Usa sulla santa alleanza dei media occidentali. Boris Johnson con la sua inscalfibile faccia tosta ha dichiarato che il Regno Unito è orgoglioso di quel che è riuscito a fare in Afghanistan in questi vent’anni, ma niente di simile all’orgoglio e nemmeno a una contenuta soddisfazione è rintracciabile nelle dichiarazioni degli esponenti americani, dalle quali sembra piuttosto di intuire che (con la doverosa eccezione delle lobby militari) non siano precisamente entusiasti di essersi lasciati menare per il naso per vent’anni da una classe politico-amministrativa afghana a dir poco opportunista, al prezzo medio di 50 miliardi di dollari l’anno (senza contare le perdite umane), sicché il messaggio che traspare è lapidario: “adesso, che si arrangino!”.

L’unica trovata dei gestori del softpower americano è stata la asserita “sorpresa”, diffusa col solito zelo dai media internazionali, per il rapidissimo dilagare del potere talibano nel territorio non ancora completamente sgombrato dagli uomini e dai mezzi delle forze armate occidentali. “Trovata” di una modestia deprimente se solo si pensa al fatto che la smobilitazione occidentale era già stata discussa tre anni fa dall’amministrazione Trump proprio con i Talibani, i quali hanno insediato il loro “ufficio politico” non nella Corea del Nord e nemmeno a Cuba ma nel Qatar che, se non ricordo male, ospita anche la più grande base militare Usa nel Medio Oriente, forte di dieci-quindici mila uomini.

Del resto, Biden può consolarsi con l’idea che anche il più grande e fulmineo fondatore di imperi di tutti i tempi, Alessandro Magno, duemila e trecentocinquanta anni fa fu costretto a lasciare le montagne di quella che ai suoi tempi si chiamava la Battriana con la coda tra le gambe.

Ma soprattutto, l’autorità del presidente americano ritrae conforto dalle dimissioni, imperiosamente richieste a fine luglio e ottenute nel giro di una settimana, di Andrew Cuomo, il governatore dello stato di New York che dopo un braccio di ferro di alcuni mesi ha dovuto arrendersi alla campagna scatenata nel dicembre dello scorso anno da The New York Times (NYT) e coltivata poi anche da altre autorevolissime testate come The Atlantic, per accuse di toccamenti non sollecitati, proposte più o meno indecenti a donne dell’amministrazione statale (col solito effetto valanga, alla prima denuncia se erano accodate altre, fino a raggiungere il numero di 11 ipotetiche vittime).

Governatore per tre legislature consecutive, uomo forte dei Democratici a New York, Cuomo non si era occupato di nani e ballerine, ma di cose piuttosto serie come l’edilizia popolare e la politica fiscale dello Stato, ma se lo fece bene o male non lo sapremo forse mai. Sembra di capire che all’origine della sua caduta ci sia la strana regola per cui chiunque, nello Stato, può ininterrottamente candidarsi all’ufficio di governatore e farsi eleggere per un numero indeterminato di legislature, e Cuomo aveva già dichiarato di volersi ricandidare per una quarta volta. É stato colpito e (per il momento) affondato, per ragioni che non hanno nulla a che fare né con i contenuti delle sue politiche né con le modalità della loro attuazione, ma con la violazione di tabù di una morale sessuale il cui codice è quotidianamente aggiornato dagli sceneggiatori seduti negli uffici delle grandi redazioni. Prima di Cuomo, del resto, Eliot Spitzer , che da procuratore generale dello Stato di New York si era confrontato con la famiglia Gambino, lascia la carica di governatore due giorni dopo che il solito NYT pubblica rivelazioni su un’indagine federale che lo riguarda per il sospetto di passati rapporti sessuali mercenari.

Se l’autorità del Presidente risulta corroborata dalle pronte dimissioni del reprobo Cuomo, è lecito chiedersi se altrettanto possa dirsi dell’autorità del metodo democratico, del quale Biden non ha smesso di sventolare la bandiera da quando si è insediato alla Casa Bianca organizzando, nel corso del suo viaggio di fine primavera in Europa, una vera e propria “chiamata alle armi” delle democrazie occidentali contro i regimi autoritari (quale più, quale meno, in funzione dei rapporti con la Nato). Per come lo si conosceva, il metodo democratico assicurerebbe l’avvicendamento alla guida dello Stato attraverso il confronto elettorale ma il caso di Cuomo sembra suggerire che il ricorso alle urne serva piuttosto a “ratificare” forme di ostracismo opaco gestite sulla base di accuse altrettanto opache di violazione di codici etici che l’accusa si riserva di definire in corso d’opera, anche in funzione delle testimonianze a carico che riesce a raggranellare. In una società composta di consumatori-spettatori, si è deciso di affidare al sistema dei media – opportunamente preorientati, è lecito presumere e perfino augurarsi – il compito di regolare l’avvicendamento ai posti di comando politici con demonizzazioni a comando.

Poi, certo, Lukaschenko, Orbàn, Kim-Jong-Un, Al Sisi, Putin, Xi Jinping e via deprecando per autocompiacersi della democrazia che continua a regnare nel mondo occidentale. Ma quando si parla di crisi della democrazia (come fa il politologo Jan-Werner Mueller, di Princeton e quindi autorevole per definizione) oltre a preoccuparsi del Partito Repubblicano “trumpificato” e della degenerazione autocratica della Polonia e dell’Ungheria, si farebbe bene a dedicare un minimo di riflessione al ruolo e al peso relativo delle consultazioni elettorali e della comunicazione di massa. Oppure ad altri argomenti che in un’università degna del proprio nome dovrebbero essere pane quotidiano, come la “gerarchia delle fonti”. Oggi, delle fonti delle norme del politically correct e della cancel culture, armi assai poco segrete del softpower americano e quindi destinate a regolare le dinamiche della vita pubblica, e soprattutto a definirne i confini, ben più efficacemente delle polverose Costituzioni, degli ancor più polverosi codici e/o delle leggi promulgate dai parlamenti.

Incidentalmente, nelle grandi università americane è in corso, come è noto, una politica di rimozione degli studi classici fondata anche sulla denuncia dei preconcetti maschilisti e razzisti disseminati nei testi classici. Denuncia sacrosanta, ci mancherebbe altro, ma è curioso che la rimozione si consumi proprio nel momento in cui la politica americana si avvia a rifondare la propria democrazia ricorrendo a un importante istituto dell’Atene del quinto secolo a. C., l’ostracismo. Ci vorrebbe un minimo di coordinamento, Santo Iddio!

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