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Perché la sortita di Leoluca Orlando (contro Matteo Salvini) sarà un boomerang

Il commento di Gianfranco Polillo   Il discorso di fine anno di Sergio Mattarella ha riaperto la questione. Solidarietà ed inclusione per quella massa di derelitti che preme alle porte dell’Europa e cerca, nell’immigrazione, una speranza di futuro. Il tutto mentre due navi delle Ong vagano nel Mediterraneo, nemmeno fossero l’Olandese volante, alla ricerca di…

 

Il discorso di fine anno di Sergio Mattarella ha riaperto la questione. Solidarietà ed inclusione per quella massa di derelitti che preme alle porte dell’Europa e cerca, nell’immigrazione, una speranza di futuro. Il tutto mentre due navi delle Ong vagano nel Mediterraneo, nemmeno fossero l’Olandese volante, alla ricerca di un rifugio sicuro. Il messaggio è stato immeritatamente recepito. L’iniziativa di Leoluca Orlando, il sindaco di Palermo, che ha deciso di trasgredire al decreto sicurezza, è stato subito imitata da altri sindaci con la patente di sinistra. Si rischia, quindi, di tornare punto e a capo: nella dura contrapposizione tra apocalittici – gli intransigenti contro l’immigrazione clandestina – e gli integrati: braccia aperte per chi fugge dalla fame e dalle guerre e sogna una terra migliore.

Nei talkshow è di nuovo infuriata la battaglia. Nel mirino soprattutto Matteo Salvini, l’uomo senza cuore, che chiude le porte e costruisce muri. Quando invece sarebbe necessario edificare ponti in un afflato umanitario “senza se e senza ma”. E sono riecheggiate le vecchie parole d’ordine contro il razzismo e la xenofobia. Chi si chiude nella propria isola felice, che tale purtroppo non è, non è degno di alcuna considerazione. “Italiani brava gente” che, all’improvviso, si vedono trasformati in mostri senza coscienza alcuna.

Accuse ridicole. Razzismo e xenofobia, in Italia sono stati sempre patrimonio di sparuti gruppi di casseur. Ultras delle varie tifoserie del calcio con propensioni eversive. Nella storia d’Italia, dove internazionalismo ed ecumenismo l’hanno fatta da padrone, non c’è mai stata una propensione maggioritaria contro lo straniero o il diverso. Siamo, al contrario, un popolo fin troppo tollerante. Figlio di un’antica tradizione. Quella della Roma imperiale, che conquistava il mondo, ma non distruggeva le culture e le istituzioni dei popoli sconfitti e sottomessi.

Non è quindi nel razzismo che va cercato l’insofferenza che si manifesta nei confronti di un’immigrazione che è difficile, se non impossibile, controllare. Né valgono quei teoremi che puntano il dito sulle esperienze straniere: la Francia o la Germania, ad esempio, dove il multi-etnicismo è regola costante. Ma tralasciano, ad esempio, di prendere in considerazione la Brexit: che di quello stesso fenomeno ne rappresenta il lato oscuro. Visto il peso avuto dall’immigrazione europea nel legittimare una scelta sempre più sciagurata.

Ma c’è qualcuno che può ragionevolmente sostenere che l’esperienza tedesca, quanto a tolleranza nei confronti dei non ariani, sia migliore di quella italiana? Eppure in Germania il fenomeno dell’immigrazione, molto prima della sua stessa riunificazione nazionale, è stata una costante di quel modello di sviluppo. Italiani di un tempo, turchi, greci e via dicendo, ed ora i siriani, per anni, sono stati la mano d’opera che ha consentito all’industria tedesca il primato che gli va riconosciuto. In tutti questi casi l’immigrazione è andata a braccetto con lo sviluppo. E lo sviluppo ha richiamato sempre maggiori forze di lavoro.   

Questo, quindi, è il punto vero su cui soffermarsi per dare al tema dell’immigrazione una risposta razionale. Senza limitarsi esclusivamente ad agitare il problema in continue fughe in avanti all’insegna del puro dover essere. Che sfugge ad ogni principio di realtà.  Se c’è sviluppo, crescita economica, occasioni di lavoro c’è anche la possibilità di un’accoglienza. Ma se i tassi di sviluppo, in Italia, rimangono quelli che conosciamo, la morsa si stringe, alimentando una lotta tra poveri che spinge a scelte crudeli.

La dimostrazione di questa tesi è certificata nei dati dell’Istat. Dal 2011, le famiglie italiane hanno risposto alla crisi, rimettendosi in gioco. Nella speranza di mantenere il proprio livello di benessere. La ricerca di un lavoro da parte di chi, in precedenza, viveva a carico dei propri familiari, è divenuta assillante. In questi anni il tasso di attività della popolazione è aumentato del 4 per cento. Circa un milione e mezzo di persone, soprattutto donne (più 10 per cento), che in passato potevano consentirsi il lusso dell’inattività, si sono offerte sul mercato del lavoro. Ma meno della metà hanno avuto una risposta positiva. La maggior parte di loro ha solo ingrossato le fila della disoccupazione.

Ignorare il problema, con il semplicistico assioma che gli immigrati fanno lavori che gli italiani non vogliono fare, è solo un salvarsi l’anima. Nelle campagne meridionali sono gli immigrati che lavorano la terra. Ma il loro tasso di produttività è così basso e i sistemi di sicurezza talmente inesistenti, da consentire solo condizioni di vita quasi sub umane. Nascono così e si radicano quelle forme di sfruttamento che fanno, giustamente, inorridire. In altri casi, invece, le comuni radici geografiche degli immigrati ne attenuano i rigori. Gli indiani, nell’agro pontino, hanno ricostruito le proprie comunità che mantengono le tradizioni originarie. Hanno formato delle enclave quasi autosufficienti, che riducono al minimo i punti di frizione con il resto della popolazione. Ma si tratta di casi isolati.

In generale non è questo il modello che governa l’immigrazione. Le regole del traffico di uomini porta ad aggregare moltitudini provenienti da Paesi diversi. Unite solo dalla disponibilità di chi ha i soldi per permettere il viaggio della speranza. Non hanno una comune origine geografica, né radici culturali condivise. Al contrario, spesso portano con loro la frammentazione tribale, che caratterizza i loro Paesi d’origine. Sono individui soli, salvo qualche legame familiare, troppo debole per fare comunità. Si accampano negli spazi che riescono a conquistare. Generalmente al margine delle grandi periferie urbane. E sono costretti a vivere di espedienti: lavori in nero (quando va bene), elemosina, qualche debole sussidio governativo o locale, la carità di qualche benevola organizzazione. Quando non sono portati a ricorrere a patti con la criminalità organizzata (droga e prostituzione) per un incomprimibile senso si sopravvivenza. Ed allora l’allarme sociale diventa al color bianco. 

A queste carenze si dovrebbe far fronte con massicci interventi del welfare. Ma se lo sviluppo non corre, anche le risorse per il welfare vengono meno. I relativi limitati stanziamenti devono, infatti, servire per far fronte ai maggiori costi generali, indotti dalla crisi. Esigenze che non riguardano solo gli immigrati, bensì l’intera popolazione. “Prima gli italiani”: è il risultato di questa contraddizione, che non può essere rimossa con il semplice appello buonista. Per cui la politica delle “porte aperte” rischia solo di alimentare nuove lacerazioni. Ed ecco allora che non basta la predica laica contro le brutture del mondo. Occorre, invece, coerenza. Legare tra loro i problemi. Avere chiaro nella testa il legame che unisce sviluppo e logiche di inclusione. Si assiste, invece, al contrario. Come mostra l’ultima legge di bilancio. E l’Italia rischia definitivamente di sprofondare in un caos che non è solo economico, ma anche istituzionale. Come mostra l’ultima iniziativa del sindaco di Palermo, Leoluca Orlando.

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