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Mali

Perché il Mali è una crisi africana che può arrivare in Europa

L'approfondimento di Enrico Martial

Il 4 giugno, Choguel Maïga, possibile nuovo primo ministro del Mali, con gesto distensivo, ha confermato il rispetto degli impegni internazionali del suo Paese e chiesto comprensione.

Siamo sulla coda del recente colpo di Stato. Il 24 maggio Bah Ndaw e Moctar Ouane, presidente e primo ministro, erano stati portati al campo militare Kati, vicino alla capitale Bamako, per dare le dimissioni due giorni dopo, il 26 maggio. Stavano formando un governo senza consultare per bene il colonnello e vicepresidente Assimi Goïta, che era stato all’origine anche del colpo di stato di meno di un anno fa, nell’agosto 2020, quando aveva destituito il presidente Ibrahim Boubacar Keïta. Ci si trovava in una fase di transizione di 18 mesi, prima di tornare a un governo civile dopo le elezioni previste per il 27 febbraio 2022.

Hanno protestato tutti: Francia, Onu, Stati Uniti. Il Mali è stato sospeso CEDEAO (Conferenza dell’Africa occidentale) e dall’Unione Africana, rispettivamente il 30 maggio e il 1° giugno. Il presidente Emmanuel Macron, in una specie di consenso occidentale, il 30 maggio ha minacciato il ritiro delle forze francesi nel caso il Mali andasse verso un islamismo radicale e il 3 giugno la ministra della difesa, Florence Parly, ha sospeso le attività militari bilaterali, anche nella forza “Barkhane”, che conta 5100 soldati francesi. Sono rimaste in piedi solo le iniziative europee di formazione EUTM Mali e EUCAP Sahel Mali, gli Stati Uniti avevano interrotto l’assistenza militare già il 26 maggio, appena dopo il colpo di stato.

Il punto politico è proprio questo: il possibile nuovo primo ministro, Choguel Maïga, è considerato vicino all’imam “conservatore” (cioè piuttosto radicale) Mahmoud Dicko. Secondo il giornale Bruxelles2, si tratterebbe di uno spostamento anche di sicurezza, perché ad un certo punto si può immaginare che le forze maliane, in lotta contro gli jihadisti, possano cambiare ogni tanto idea e girare le loro armi verso gli occidentali, un po’ com’era in Afghanistan.

Così, in una decina di giorni si è creato un altro problema critico nel Sahel, che si affianca alla debolezza del governo che è seguito alla morte, in battaglia il 20 aprile, di Idriss Déby, presidente del Ciad, Paese dove si trova la base principale della forza francese Barkhane di contrasto al jihadismo. I problemi di sicurezza persistono in tutta l’area: nella notte tra il 4 e il 5 giugno sono morte almeno 160 persone per un attacco che si suppone jihadista nel nord del Burkina Faso, a Solhan, vicino al Niger. Ci sono tensioni anche tra singoli stati: sei militari ciadiani sono morti nella località di Mini, prossima alla Repubblica Centrafricana, nel quadro di un inseguimento di ribelli da parte di soldati centrafricani, affiancati da paramilitari russi.

Tutta la regione, se non tutta l’Africa, continua peraltro a mostrare segni di cedimento. Ancora il 30 maggio, 200 bambini sono rapiti da una scuola coranica in Nigeria, mentre Il 2 giugno, lo stesso presidente nigeriano Muhammadu Buhari ha lanciato grevi avvertimenti agli indipendentisti del Biafra, e poi ha interrotto a tempo indeterminato Twitter nel Paese, dopo che gli avevano sospeso due cinguettii sul tema. Il disastro della caduta della città di Palma del 27 marzo per mano jihadista, nel nord del Mozambico non si è ancora risolto e le attività intorno al giacimento di gas restano interrotte. Nel nord Kivu, nella Repubblica democratica del Congo, dove è stato ucciso il 22 febbraio scorso il nostro ambasciatore Luca Attanasio, tra il 30 e il 31 maggio sono morte 50 persone nell’attacco in due villaggi vicino all’Ituri da parte di gruppi terroristici che si fa persino fatica a identificare, forse ribelli ugandesi, o gruppi etnici, o altro.

I tentativi di stabilizzazione ci sono, con la collaborazione interstatale (il G5 Sahel) o l’europeizzazione del problema della “frontiera sud del Mediterraneo”, corridoio e fonte di migrazioni, ma anche di possibile esportazione di terrorismo in Europa, come indicava il 1° febbraio il molto riservato direttore francese della sicurezza esterna, Bernard Emié. Tra l’altro Germania, Italia e nella stessa Ue hanno aggiornato nel 2020 le loro strategie sull’Africa. Con varie presenze europee e una italiana prevista fino a 200 unità, è sorta la task force Takuba che non solo stenta a prendere velocità, ma è stata ugualmente sospesa dopo il colpo di stato. Anche la recente nomina dell’italiana Emanuela Del Re, che ha lasciato il ruolo di viceministro degli esteri, a Rappresentante speciale dell’Unione Europea per il Sahel, va letta in questo percorso di partecipazione (e di internazionalizzazione, se si considerano gli Stati Uniti), in cui si trattano temi di sicurezza, stabilità e di sviluppo, su cui operano però anche i russi, i turchi e i cinesi.

Nel Mali, che ha 19 milioni di abitanti ed è uno dei Paesi più poveri del pianeta, soltanto le zone urbane sono relativamente protette e dotate di servizi. L’esercito maliano è pagato senza una vera contabilità e senza passare dai conti bancari. Secondo uno studio del Sipri di Stoccolma, la statualità e il monopolio della forza variano nelle zone interne, dove la giustizia viene amministrata per esempio dai capi villaggio, i conflitti sono risolti sulla base del diritto consuetudinario, oppure dai capi religiosi, ma anche dagli stessi gruppi jihadisti, come nel caso di furti di bestiame. Le mine, le strade e i ponti interrotti, i divieti di coltivare i campi lontano dai propri villaggi impediscono la circolazione delle merci e l’organizzazione dei mercati, con impoverimenti che rafforzano le adesioni all’estremismo islamico.

Il 3 maggio, Josep Borrell ricordava in una intervista che dal 2014 al 2020 la situazione si è sempre più degradata, malgrado lo sforzo profuso. Se da più parti si sottolinea che la risposta militare non è sufficiente, Borrell informava che anche quella degli aiuti, e quindi dello sviluppo, era bloccata.

Probabilmente, a questo punto, tra le risposte, bisogna trovarne una intellettuale, cioè una grossa nuova riflessione, oltre le strategie del 2020, per capire cosa fare.

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