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Mali

Mali? Una sconfitta per Onu e Francia

Che cosa succede in Mali. L'analisi di Giuseppe Gagliano

 

L’attuale fallimento della missione francese in Mali non deve destare particolari sorprese poiché la situazione conflittuale attuale ha non soltanto una genesi storica antica ma è il risultato di una situazione estremamente complessa.

Il conflitto è iniziato nel 2012, ed è iniziato con la dichiarazione di successione del cosiddetto Azawad, un territorio desertico del Nord successione alla quale poi si è aggiunta successiva invasione del Nord da parte di forze islamiste sostenute da formazioni autoctone.

Se inizialmente i gruppi islamisti attivi erano tre – Ansar Dine, Mujao e Aqmi -, allo stato attuale vi è stata invece una frammentazione dei gruppi islamisti, che hanno tuttavia un obiettivo comune: e cioè asservire il Mali alla legge della Sharia. Proprio per questa ragione gli episodi di lapidazione, mutilazione, distruzione di mausolei considerati iconoclasti dagli integralisti islamici sono stati – e sono – all’ordine del giorno.

LE RAGIONI DELLE TENSIONI IN MALI

Una delle ragioni – ma certo non la sola – dell’attuale conflittualità sociale dipende dalle implicazioni assolutamente nefaste del colonialismo francese: non dimentichiamoci infatti che il Mali è diventato indipendente dalla Francia nel 1960.

Una seconda ragione dipende dalla permanente conflittualità tra diversi gruppi etnici e cioè bambara, i fulani, i sarakole, i senufo, i dogon, i malinke e i tuareg. Inoltre la popolazione, che è musulmana per oltre 80%, è concentrata per più del 40% in aree urbane.

Ora, al di là del drammatico tasso di analfabetismo che supera il 65%, un’altra ragione della conflittualità presente in Mali dipende da un lato dalle ricche risorse naturali (oro, fosfati, sale, uranio, gesso, granito, giacimenti di bauxite, ferro, stagno e rame), e dall’altro lato dalla scarsità di terra, che è sempre più contesa anche per una semplice quanto drammatica ragione climatica: l’avanzata del deserto.

Una quarta motivazione è legata ad uno scontro tra pastori nomadi di etnia fulani e agricoltori stanziali di etnia dogon. Ebbene, questo conflitto si può definire una vera e propria lotta per la vita. Tra questi due gruppi vi sono – allo stato attuale – soltanto scontri perché entrambe le popolazioni hanno bisogno sempre di più di terra. La loro insomma è una lotta per la sopravvivenza.

Ma l’attuale deriva conflittuale è tuttavia anche la conseguenza del fatto che la situazione nelle province del Nord del Mali era già critica.

Inoltre, negli ultimi anni, sia i caschi blu dell’ONU che i militari francesi sono stati oggetto di numerose imboscate mortali nella regione di Gao e di Timbuktu. Allo stato attuale la situazione è talmente fuori controllo che ormai le autorità non sono più in grado di stabilire se questi attacchi giungano da frange dei movimenti islamisti o invece dal fronte Tuareg. Infatti sono proprio queste zone, cioè le zone calde, dove si gioca ormai il futuro del Mali.

LA PERDITA DI CREDIBILITÀ DELLE MISSIONI

A questo punto sia l’operazione Serval che l’operazione francese Barkhane non hanno più alcuna credibilità come seppure implicitamente ha fatto comprendere Macron. Infatti, nonostante la presenza negli anni passati di quasi 8000 soldati effettivi, queste non hanno alcun controllo del territorio e soprattutto non sono in grado di prevenire i giochi di alleanze che islamisti e Tuareg alternano ormai da molto tempo.

A tutto ciò dobbiamo anche aggiungere le fondate accuse di corruzione e complicità nel traffico di armi che riguardano la regione.

Se le truppe francesi sono oggetto di costante bersaglio, analogamente l’operazione ONU denominata Minusma è stata fatta oggetto di attacchi sia da parte degli gruppi terroristici che da parte dei Tuareg. L’efficacia dell’azione terroristica è tale che questa è stata in grado di raggiungere anche il sud del Mali.

In ultima analisi, se l’Afghanistan ha rappresentato per la Nato e per gli Stati Uniti una plateale sconfitta, il Mali – almeno fino allo stato attuale – rappresenta una evidente sconfitta soprattutto per l’Onu, per l’Europa ed, in particolare, per la Francia.

LA CRISI IN MALI E L’ITALIA

Per quanto riguarda il nostro paese, gli accordi bilaterali volti a contrastare il terrorismo e soprattutto l’immigrazione clandestina sono certamente comprensibili e necessari, come fra l’altro dimostra la nostra partecipazione alla “Task Force Takuba”, operativa in Mali da marzo del 2020, che è stata istituita inizialmente dalla Francia e da altri 13 Paesi europei.

Come sappiamo, questa missione ha come scopo quello di contrastare le attività dei gruppi armati nella regione dell’Africa occidentale in stretto coordinamento con gli eserciti del Mali e del Niger. Proprio in questo contesto di collaborazione deve essere letta la visita di Di Maio il 6 maggio al suo omologo Al Hamdou Ag Ilène, con il quale ha presenziato alla firma di un accordo di pace tra le comunità del Nord del Mali.

Tuttavia, un esame critico delle operazioni militati fino adesso condotte lascia emergere con molta evidenza il fallimento delle operazioni fino a qui condotte dall’Occidente. Siamo persuasi insomma che il Mali potrebbe rappresentare un altro Afghanistan. Quindi, anche se la nostra presenza è necessaria e comprensibile, dobbiamo renderci conto realisticamente che il nostro contributo sarà assolutamente marginale e non modificherà in alcun modo la situazione attualmente presente.

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