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Perché è Macron (non Merkel) il vero vincente nella partita delle nomine in Europa

L'analisi dell'editorialista Guido Salerno Aletta

Gongola a ben ragione Emmanuel Macron, per il pacchetto di nomine ai vertici delle istituzioni europee varato il 2 luglio dal Consiglio europeo. Ha stravinto una partita che era comunque in discesa, perché alle ultime elezioni del Parlamento europeo i due principali Gruppi storici di Strasburgo, in rappresentanza del Partito popolare e dei Socialisti & Democratici, hanno perso la maggioranza assoluta. Dovevano dunque scendere a patti con un’altra componente, e Renew Europe (ex-Alde), ora egemonizzata dalla componente francese che sostiene il Presidente Macron, era già lì, pronta con il cesto a raccogliere le mele che sarebbero cadute dall’albero. L’albero, però, andava scosso prima con accorta brutalità: la strategia di Macron prevedeva tre mosse: smantellare le regole su cui la Germania fonda la sua governance politico-istituzionale; seminare quindi la discordia nei e tra i Gruppi che sostengono il governo della Cancelliera Merkel, Popolari ed S&D; costruire infine le condizioni per una Commissione “debole” ed una Bce “amica”.

Macron ha subito squadernato: si è messo di traverso alla ipotesi di tener fermo la prassi politica, secondo cui il presidente della Commissione è il candidato di punta (spitzenkandidat) del Gruppo che ha riscosso i maggiori suffragi. Ha detto subito che non accettava questa logica, affondando la candidatura del tedesco Manfred Weber, eurodeputato e capogruppo dei Popolari, sostenuta dalla Merkel. Ha allargato la rosa dei candidati, menzionando il conterraneo Michel Barnier, capo-negoziatore per l’Accordo di recesso della Gran Bretagna dall’Unione: bisogna scegliere personaggi autorevoli, senza fermarsi alle consuetudini. Macron ha scelto questa linea per indebolire Angela Merkel nella successiva negoziazione: costei, infatti, è a capo di un governo di coalizione, con l’Spd, e deve comunque misurarsi con una nutrita pattuglia di partiti aderenti al Ppe. Niente a che vedere con la beatissima solitudine decisionale di cui gode Macron, che porta all’incasso il sistema elettorale francese, particolarmente manipolativo: il doppio turno di collegio con ballottaggio consente di essere eletti anche con una percentuale molto bassa di voti. In Francia si può governare anche con una minoranza di consensi. In Germania, al contrario, il sistema elettorale è proporzionale con sbarramento: per governare, occorre quasi sempre formare una coalizione. La regola dello spitzenkandidat, così cara ai tedeschi, serve dunque a fornire un criterio al processo politico, che altrimenti risulterebbe caotico: ed è per questo che Macron l’ha fatta saltare. Mentre “lui” poteva piroettare a piacimento, guidando un partito personale in Francia ed egemonizzando Renew a Strasburgo, che ora è il terzo Gruppo per dimensioni, “lei” doveva mediare ad ogni passo, dentro e fuori della Germania, con i Popolari e con S&D.

Il cosiddetto “patto di Osaka”, che sarebbe stato stretto nel corso del G20, era inaccettabile già in partenza. Prevedeva, infatti: la nomina a Presidente della Commissione del socialista olandese Frans Timmermans; la retrocessione del tedesco Manfred Weber alla Presidenza del Parlamento; una ben magra compensazione per i Popolari, con la nomina alla Presidenza del Consiglio Europeo della bulgara Kristalina Georgieva (ora direttore della Banca Mondiale); la preposizione del liberale belga Charles Miche ad Alto rappresentante Ue, e quella del Governatore della Banca di Francia, François Villeroy de Galhau, alla Bce. Un pasticcio indigeribile, come si è poi constatato, ma per l’appunto ben studiato, come “fase due” della strategia di logoramento degli avversari e di attribuzione alla Francia del vertice della Bce .

Quanto che si è detto circa il fallimento del “patto di Osaka”, che sarebbe stato determinato dalla formazione di una minoranza di blocco da parte dell’Italia e dei quattro Paesi del Gruppo di Visegrad, non tiene conto del fatto che solo il Presidente francese Macron in rappresentanza dei liberali, ed il Presidente spagnolo Sanchez per i Socialisti, confermarono nell’ambito del Consiglio europeo l’assenso dei rispettivi Gruppi politici. La Cancelliera Merkel non potè fare altrettanto, perché i Popolari si erano letteralmente infuriati: la Presidenza della Commissione doveva spettare, comunque, ad un loro esponente

Si arriva così alla terza fase della strategia di Macron, che prevede una Commissione “debole” ed una Bce “amica”. Non è chiaro chi abbia formulato la proposta di candidare alla Presidenza della Commissione l’attuale Ministro della difesa della Germania, Ursula Von der Leyen, un personaggio politico talmente vicino alla Merkel da essere sempre stato sempre presente nei governi di costei, da ben 13 anni a questa parte. Si dice che la proposta sia stata avanzata dal Presidente Macron, che l’aveva incontrata per la prima volta solo pochi giorni prima. Fatto sta che a quel punto il puzzle si è completato, come d’incanto: un esponente dei Popolari, tedesco, prenderebbe la Presidenza della Commissione; un socialista, lo spagnolo Josep Borrell, Ministro degli esteri in carica con il governo di Pedro Sánchez, assumerebbe l’incarico di Alto Rappresentante per la Politica estera e la Sicurezza; il liberale belga francofono Charles Michel, già primo ministro del suo Paese, diverrebbe il nuovo Presidente del Consiglio europeo. Dulcis in fundo, la francese Christine Lagarde, già esponete dell’UMP (Unione per un movimento popolare, partito associato al Ppe) e Ministro delle Finanze ai tempi della Presidenza di Nicolas Sarkozy, prenderebbe le redini della Bce.

Il paradosso politico di questo pacchetto sta nel fatto che il Consiglio europeo lo ha varato all’unanimità, ma con l’astensione della Germania: la Canceliera Merkel, infatti, non se l’è sentita di dare l’approvazione ad un accordo che smentisce la regola del candidato guida estromettendo completamente Weber e che è osteggiato anche dall’Spd.
Spetterà ora al Parlamento europeo approvare a maggioranza assoluta la nomina di Ursula Von der Leyen: un voto non scontato, visti i malumori già palesati. L’ex presidente del Parlamento Europeo e già leader dell’Spd, Martin Schulz, ha aperto il fuoco di sbarramento, con un tweet in cui ha ironizzato riferendosi alla Von der Leyen, affermando che “qui è il ministro più debole: questo sembra sufficiente per diventare capo della Commissione”. Anche il primo vicepresidente del Gruppo S&D a Strasburgo, il tedesco Bernd Langei, ha affermato che il pacchetto di nomine “non è accettabile per i socialdemocratici”. Tanja Fajon, altro vicepresidente del gruppo S&D, non è stata da meno, annunciando “un no molto chiaro: la maggioranza non è pronta a sostenere l’attuale accordo sugli incarichi Ue”.

Se, per ipotesi. la candidatura di Ursula Von der Leyen non dovesse passare il vaglio del Parlamento europeo per via del mancato appoggio dei rappresentanti di S&D, la Merkel subirebbe uno smacco gravissimo, mentre Macron gongolerebbe vedendo politicamente umiliata la sua delfina. Intanto, il Gruppo S&D ha messo fieno in cascina: si è aggiudicato la Presidenza del Parlamento europeo, carica a cui è stato eletto nel secondo scrutinio l’italiano David Sassoli.

La guida della Bce affidata a Christine Lagarde rappresenta per Macron e per la Francia un triplice successo: per quanto si legga che sarebbe una “prussiana che veste Chanel”, ripetendo l’allegoria di Mario Draghi che fu fotografato mentre si accingeva a calzare il tristemente famoso elmetto chiodato, questa nomina seppellisce ogni velleità di ritorno alla ortodossia monetaria della Bundesbank; in secondo luogo, rompe la tradizione per cui questo incarico spetta ad un membro della confraternita dei banchieri centrali; infine, crea il presupposto per la de-germanizzazione dell’euro, coronando finalmente il sogno che fu di Mitterand. La moneta unica europea, infatti, aveva un solo scopo: non subire più le angherie monetarie altrui, né del marco né del dollaro.

Si prospetta ora un perimetro europeo esiguo, politicamente e territorialmente, con i Paesi dell’Est completamente ignorati, l’Italia mortificata e la Gran Bretagna in uscita. Una Presidenza della Repubblica francese istituzionalmente stabile, anche se con un consenso popolare assai scarso, si sta confrontando con una leadership tedesca in fase calante. La Cancelliera Merkel ha perso passo e visione: se avesse concesso spazio ai Verdi, facendoli entrare nella maggioranza a Strasburgo, avrebbe reso meno forte la leva di Renew Europe e di Macron. Avrebbe sicuramente corso il rischio di forti frizioni interne con l’Spd, che però non ha evitato. D’altra parte, i Verdi sono ormai il secondo partito in Germania ed il terzo Gruppo parlamentare sia a Strasburgo che in Francia.

La prova di forza di Macron è riuscita: ha aumentato il peso politico della Francia, indebolendo sia la Germania che l’Unione europea. Chapeau.

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